Si parla molto, ultimamente, di cancel culture. Un fenomeno nato negli Stati Uniti, dove è presente oramai da anni, e infine approdato anche in Italia.
Ma che cosa s’intende con cancel culture? Le definizioni non sono univoche, seppur vi siano degli evidenti punti di contatto e concordanza. Da un lato vi è chi, con essa, si riferisce essenzialmente al tentativo di cancellare parte del passato, in quanto espressione di valori e tradizioni che vengono considerati anacronistici. Un esempio in tal senso potrebbe essere la proposta di tagliare il greco e il latino dall’Università di Princeton, cosa che il filosofo francese Rémi Brague, sul Timone di luglio-agosto, ha definito «una follia», per poi argomentare come questo esito sia il sintomo di un male ancora più grande. Dall’altra vi è tuttavia anche chi declina la cancel culture secondo un’accezione più “personale”: si tratta cioè di colpevolizzare, cosa che con i social risulta di certo più facile e amplificata, una persona o un’azienda che ha fatto o detto cose politicamente “scorrette”, che la massa non ritiene più adeguate ai tempi. Rispetto a questo, si potrebbe fare l’esempio della scrittrice J.K. Rowling, finita nel tritacarne mediatico per un tweet nel quale di fatto sosteneva il fatto che si nasce, e si rimane per tutta la vita, uomini o donne: un banale concetto biologico, insomma, che però oggi non risulta condiviso e soprattutto sostenuto dalla “parte giusta” della società, quindi in definitiva sufficiente per condannare chi lo sostiene.
Ed è facendo principalmente, anche se non univocamente, riferimento a questa seconda accezione che si è espresso, durante un intervento dal titolo “Cristo e la cancel culture” tenuto nell’ambito della Ignited By Truth Catholic Conference (qui il video), padre Mike Schmitz (a lato), sacerdote cattolico che presta servizio nella diocesi di Duluth, in Minnesota, ma soprattutto volto ormai noto e apprezzato sui social. «La cancel culture», ha infatti affermato il padre, «attacca le persone che non hanno in alcun modo violato la legge. Hanno semplicemente infranto le regole di ciò che la folla ritiene accettabile». Il tutto, prosegue, sulla base di puri sentimenti soggettivi, che non hanno un riscontro oggettivi: per certi aspetti, è la storia che si ripete…
Quello che sta avvenendo, rileva Schmitz, è una sorta di «militarizzazione del linguaggio e di armamento della compassione»: di fronte alla massa, la persona non viene più considerata in quanto soggetto portatore di dignità, anzi. Cosa che è radicalmente contraria alla dottrina cristiana.
Cosa fare, dunque, di fronte alla cancel culture? Per il padre la risposta si articola in tre punti. Innanzitutto bisogna rimanere nella verità e non offendersi: alla faccia del relativismo e del narcisismo oggi imperanti, la consapevolezza di poter far riferimento a Cristo libera da falsi compromessi e dalla pesantezza degli attacchi personali.
In secondo luogo, va mantenuta vita la consapevolezza che «non ci è dovuto nulla. La cultura non è dalla nostra parte». Il cristianesimo, con il suo portato di valori e virtù, non solo non è più ben visto ma non è neanche più conosciuto, e non da oggi, ma questo non deve gettare nello sconforto, bensì stimolare a un’opera di evangelizzazione che non dia nulla per scontato, com’era per i primi apostoli.
Infine, «nessuna lamentela… i cristiani non hanno bisogno della vita per essere giusti… Gesù fu ingiustamente condannato e ucciso, e gli apostoli furono martirizzati. La vita per il cristiano non è mai stata giusta». Un’affermazione dura, ma necessaria. Il tutto nella consapevolezza, chiosa padre Schmitz, che come cristiani dobbiamo «essere incancellabili non cercando accettazione in questo mondo». D’altronde, non prevalebunt, la Verità ha già vinto: agli uomini il compito della fiduciosa perseveranza.
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