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Le Olimpiadi del politicamente corretto
NEWS 23 Luglio 2021    di Giuliano Guzzo

Le Olimpiadi del politicamente corretto

Dovevano essere i Giochi ai tempi della pandemia ma, in realtà, rischiano di essere più che altro le Olimpiadi del politicamente corretto. Tokyo 2020, in effetti, inizia sotto auspici tutto fuorché incoraggianti, da questo punto di vista. A provarlo in modo lampante è un siluramento eccellente ufficializzato nelle scorse ore: quello di Kentaro Kobayashi, direttore della cerimonia di apertura delle Olimpiadi, rimosso senza troppi complimenti dal suo incarico a seguito di notizie sui suoi commenti passati sull’Olocausto.

Più precisamente, è accaduto che è riemerso on line uno sketch risalente al 1998 in cui Kobayashi – allora componente del popolare duo comico Rahmens – insieme alla sua spalla fingevano di essere una coppia di famosi intrattenitori televisivi per bambini e lo stesso Kobayashi faceva riferimento ad alcuni ritagli di bambole di carta, descrivendoli come «quelli di quella volta che hai detto ‘giochiamo all’Olocausto’» .Già allora, beninteso, quella battuta era stata fatta dal duo con la piena consapevolezza che fosse assai pesante, dato che i comici, nello scherzare, immaginavano la rabbia del produttore dello show a causa, appunto, di quel riferimento all’Olocausto.

Quello che il duo – e di certo Kobayashi – non poteva però immaginarsi è che quelle parole 23 anni dopo sarebbero riemerse dal passato determinando nientemeno che un licenziamento. Il dato che colpisce è che non si tratta del solo allontanamento dai Giochi di queste ore. Nei giorni scorsi, infatti, il compositore Keigo Oyamada – la cui musica avrebbe dovuto essere utilizzata alla cerimonia olimpica – è stato indotto alle dimissioni per essersi vantato del bullismo nei confronti dei suoi compagni di scuola in alcune interviste: e con lui, se ne andrà pure la sua musica.

Non è andata meglio a Yoshiro Mori, che ha lasciato da presidente del comitato organizzatore a causa di alcuni commenti ritenuti sessisti; allo stesso modo, Hiroshi Sasaki ha lasciato l’incarico di direttore creativo per le cerimonie di apertura e chiusura dopo aver suggerito a un’attrice giapponese di vestirsi da maiale. Tutte esternazioni, idee e uscite di dubbio gusto, intendiamoci. Ma viene tuttavia da chiedersi quanti musicisti, artisti e anche atleti rimarrebbero ammessi alle Olimpiadi nella misura in cui si andasse a frugare a fondo nella loro vita, passando al setaccio dichiarazioni inopportune, parole discutibili, amicizie poco raccomandabili; a naso, non molti.

Ad ogni modo, che quelle alle porte siano le Olimpiadi del politicamente corretto è provato anche da altri aspetti. Come scelta, per portare il vessillo dei Giochi, della pallavolista italiana Paola Egonu – classe 1998, nata a Cittadella da genitori di nazionalità nigeriana -, atleta senza dubbio più che valida, ma che è stata subito esaltata, quando è uscita la notizia dell’onore assegnatole, per doti che con lo sport non hanno nulla a che vedere. «Tricolore, nera e arcobaleno», ha per esempio titolato Open, il giornale fondato da Enrico Mentana, sottolineando che, oltre al colore della pelle, a caratterizzare l’atleta c’è pure la sua identità sessuale. «Mi ero innamorata di una collega» aveva infatti spiegato tempo fa la pallavolista al Corriere della Sera, «ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo, o di un’altra donna». La sensazione che Egonu sia stata scelta non solo per le sue indubbie qualità atletiche, insomma, c’è e non è marginale.

Ad ogni modo, Egonu a parte, va evidenziato come di Tokyo 2020 saranno di certo le Olmpiadi più arcobaleno di sempre. Sono infatti almeno 161, secondo OutSports.com, gli atleti e le atlete parte della comunità Lgbt a partecipare a questi giochi: numero più che raddoppiato rispetto a Rio 2016. Insomma, tra licenziamenti per battute pessime – ma di un quarto di secolo fa – ed esaltazioni di atleti arcobaleno pare quasi che a questi Giochi, per un curioso paradosso, le prestazioni sportive siano destinate a non essere l’essenza ma la cornice dell’evento. Segni dei tempi, verrebbe da dire. Ma non segni entusiasmanti.


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