Se c’è un tema divisivo, questo è quello migratorio: i migranti vanno accolti, sì o no? E sempre o comunque, o con dei distinguo? E come creare un sistema di accoglienza che si esplichi in una reale integrazione? E quali prospettive dare, anche rispetto alla possibilità/al desiderio di fare ritorno nella propria Patria? Le questioni, qui solo esemplificate in qualche aspetto, sono tante e complesse, ma spesso vengono tutte racchiuse dentro un unico calderone che, più che permettere un confronto generativo, rischia di essere fuoco incendiario che produce tanto fumo e, nel concreto, pochi risultati.
IL CASO DANESE, DESTINATO A FAR DISCUTERE
In tutto questo, riporta Valeurs Actualles, in Danimarca è in corso di discussione un progetto di legge destinato a far discutere: in estrema sintesi, la proposta del governo – socialdemocratico! – è quella di ridurre, nei quartieri difficili, il tasso di popolazione “non occidentale” a una quota massima del 30%.
Attualmente, lo Stato con capitale a Copenaghen conta una popolazione di poco meno di 6 milioni di abitanti: l’11% sono stranieri e, di questi, il 58% è “non occidentale” (ossia 1 abitante ogni 20, circa); a essere coinvolti dalla misura sarebbero dunque 15 quartieri, mentre altri 25 sono considerati “a rischio”.
La decisione, presa anche alla luce del fatto, come affermato dal Ministro dell’Interno Kaare Dybvad Bek, che la presenza di una importante fetta di persone provenienti da Paesi lontani dal mondo occidentale «aumentano il rischio di vedere la crescita di una società religiosa e culturale parallela», naturalmente presenta luci ed ombre: se da un lato apre a una riflessione di ampio respiro, dall’altra presenta accenti non condivisibili (come l’obbligo di mandare i bambini all’asilo nido, pena la revoca degli assegni familiari). Tuttavia si tratta di un segnale: la questione migratoria va affrontata, non può essere lasciata a se stessa, altrimenti rischia di esplodere, con danni per tutti.
JOE BIDEN: «NON VENITE»
Si può leggere sulla stessa lunghezza d’onda l’appello che il neopresidente americano, il democratico Joe Biden, ha lanciato ai migranti che stanno arrivando a migliaia al confine fra Stati Uniti e il Messico, durante un’intervista rilasciata all’emittente televisiva Abc News all’inizio di questa settimana: «Non venite. Non lasciate le vostre città, le vostre comunità». Una frase che è subito rimbalzata sui media di tutto il mondo.
LE PAROLE DI PAPA FRANCESCO. E DEI SUOI PREDECESSORI
Sempre recentemente, nel corso dell’Udienza di mercoledì 10 marzo, di ritorno dal viaggio in Iraq, anche papa Francesco è tornato sul tema, precisando il suo pensiero: «Pensando ai tanti iracheni emigrati», ha affermato, «vorrei dire loro: avete lasciato tutto, come Abramo; come lui, custodite la fede e la speranza, e siate tessitori di amicizia e di fratellanza là dove siete. E, se potete, tornate».
Una posizione, questa, di certo non nuova nell’ambiente ecclesiale, ma anzi assolutamente in linea con quanto affermato anche dai suoi predecessori, che a loro volta avevano posto l’accento sul diritto delle persone a non emigrare. «Certo», scriveva Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata del migrante e del rifugiato del 2013, «ogni Stato ha il diritto di regolare i flussi migratori e di attuare politiche dettate dalle esigenze generali del bene comune, ma sempre assicurando il rispetto della dignità di ogni persona umana. Il diritto della persona ad emigrare – come ricorda la Costituzione conciliare Gaudium et spes al n. 65 è iscritto tra i diritti umani fondamentali, con facoltà per ciascuno di stabilirsi dove crede più opportuno per una migliore realizzazione delle sue capacità e aspirazioni e dei suoi progetti. Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra».
Pensiero a sua volta affermato già nel 1998 da Giovanni Paolo II, durante il Discorso al IV Congresso mondiale delle migrazioni: «Diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione».
ANDARE OLTRE GLI SLOGAN E LE FAZIONI POLITICHE
Alla luce di quanto riportato, sia sul fronte estero, con la proposta in esame in Danimarca e con le parole di Biden, sia rispetto al pensiero dei pontefici a noi più vicini temporalmente, appare evidente che la questione migratoria non può essere risolta a suon di slogan o sulla base di posizioni politiche aprioristiche, trattino essi un’apertura indiscriminata delle frontiere e una battaglia in favore dello “Ius soli”, oppure una chiusura dei confini e una ghettizzazione degli stranieri.
Il tema è infatti articolato e merita di essere valutato in maniera complessiva, tenendo conto sia delle esigenze/possibilità di chi si trova in condizione di emigrare, salvaguardando con questo la dignità di ogni essere umano, sia delle esigenze/possibilità degli Stati e dei cittadini che si trovano chiamati ad accogliere, con lo sguardo orientato sul bene comune, ossia «l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività, sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente» (cfr. Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 164). E questo sia nel breve, sia nel lungo termine.
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