Era il febbraio 2017 quando Aiuto alla chiesa che soffre andò in missione in Iraq e monsignor Francesco Cavina, vescovo emerito di Carpi, ebbe l’occasione di celebrare la messa a QaraQosh nella chiesa dell’Immacolacata concezione allora devastata dall’Isis (foto in alto). Sul Timone n. 162 dell’aprile 2017 pubblicammo la testimonianza di monsignor Cavina, di ritorno da quella esperienza unica.
Papa Francesco il prossimo 7 marzo, durante il suo viaggio in Iraq, programmato dal 5 all’8 marzo, pronuncerà l’Angelus proprio da quella chiesa, a QaraQosh nella piana di Ninive, luogo simbolo dei cristiani iracheni così duramente messi alla prova da anni di persecuzione. La popolazione cristiana irachena è diminuita da circa 1,5 milioni di persone prima della guerra in Iraq a meno di 150.000 oggi.
«L’Iraq», ha risposto al Corriere della Sera il cardinale Louis Raphael Sako, che dal 2013 è patriarca della comunità caldea, «sprofonda nella crisi aperta decenni fa. Prima le guerre di Saddam Hussein, l’embargo internazionale, gli effetti drammatici dell’invasione americana del 2003, poi il terrorismo, il settarismo, la corruzione imperante, la fine dello Stato centrale, Isis, la povertà, gli omicidi, le milizie divise su base religiosa: tutto ciò ci ha prostrati, siamo un Paese ridotto all’ombra di sé stesso. Il messaggio di pace e fratellanza del Papa ha un’importanza eccezionale».
L’obiettivo del viaggio apostolico di Francesco, il primo Papa che potrà visitare l’Iraq, è quello di attirare ancora una volta l’attenzione internazionale sulla situazione tremenda di persecuzione contro i cristiani nel paese. Inoltre il viaggio, che si dovrebbe realizzare salvo rinvii dell’ultim’ora dovuti anche alla situazione pandemica, ha lo scopo di puntare lo sguardo verso il Medio oriente tutto, che proprio in queste ore sta vivendo un riaprirsi di focolai di guerra con i raid aerei ordinati in Siria dal neo presidente americano Joe Biden, con obiettivi militari iraniani presenti nello scenario.
Un altro tassello importante del viaggio di Francesco è l’incontro previsto sabato 6 marzo con il grande ayatollah sciita Sayyid Ali Al-Husaymi Al-Sistani. Si tratta del tentativo di aprire una porta con il mondo sciita, dopo che con la parte sunnita dell’Islam il Papa aveva già dialogato con il viaggio di due anni fa al Cairo in Egitto, dove venne firmato il documento sulla fratellanza umana con il Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyib.
Pubblichiamo di seguito l’articolo che monsignor Francesco Cavina scrisse nel 2017 per Il Timone, di ritorno dal suo viaggio a Qaraqosh.
Di Francesco Cavina (Il Timone n. 162, aprile 2017)
I giorni della visita sono stati pochi, ma molto intensi per le forti emozioni provate.
Mentre il primo viaggio del 2016 mi aveva fatto conoscere la sofferenza della moltitudine dei perseguitati iracheni ed in particolare dei cristiani, che per rimanere fedeli al proprio Signore hanno scelto di perdere tutti i propri beni per non abbandonare Gesù, in questo secondo viaggio, organizzato sempre dall’Associazione internazionale di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che soffre, il cui presidente italiano è Alessandro Monteduro, siamo stati catapultati in una situazione spaventosa. Ci ha obbligato a confrontarci con una violenza e un odio che non solo sentiamo da secoli estranei al nostro DNA di Chiesa, ma anche alla concezione di persona umana sulla quale abbiamo costruito la nostra civiltà. Infatti, una volta usciti dalla città di Erbil, dopo qualche decina di chilometri, si entra in un territorio e in un clima surreale. Ovunque rovine, angoscianti silenzi, paesi fantasma, cimiteri cristiani profanati e soprattutto luoghi di culto cristiani saccheggiati e fatti oggetto di ogni forma di odio e di disprezzo.
I simboli a noi più cari – tabernacoli, crocifissi, statue della Vergine e dei santi – vandalizzati e frantumati con una modalità quasi scientifica. I luoghi che non sono stati distrutti sono stati “violentati” con il fuoco e le armi da guerra.
Di fronte a tanto scempio e malvagità, mi è venuto spontaneo pensare che esiste un terremoto ben più distruttivo di quello che provoca danni materiali ed è il terremoto spirituale e morale che sradica dal cuore dell’uomo ogni forma di umanità e di pietà; capace così di generare una violenza gratuita e insensata unitamente a un odio per la bellezza (rappresentata sovente in quelle terre dai luoghi di culto cristiani) che sa di diabolico, ed espresso con una frase scritta su un cancello di una chiesa che mi ha particolarmente colpito: «Nell’islam non c’è posto per la croce». Come potranno i nostri fratelli cristiani resistere a una manifestazione così evidente del Male? Male che, anche se in parte sconfitto, ha lasciato in quella terra delle ferite e delle conseguenze che superano la mera dimensione umana. È comprensibile, quindi, che i cristiani si pongano angoscianti interrogativi, che riguardano il loro futuro e quello dei loro figli: «Che ne sarà di noi?»; «Oggi abbiamo salva la vita, ma domani?»; «Come sarà possibile tornare nelle nostre case – ammesso che si possano ricostruire – se non ci viene riconosciuto il diritto di vivere in pace e tranquillità nella nostra terra?». Se vogliamo che i cristiani non abbandonino quella terra bisogna che il governo locale e le istituzioni internazionali si facciano carico di garantire non solo la loro sicurezza, ma anche quella parità di diritti civili e sociali che non dipendono dalla fede professata. Senza queste assicurazioni, difficilmente riusciremo a conservare la presenza cristiana in Iraq!
È con questi pensieri e portando nel cuore e negli occhi la pesantezza di quello che avevo visto, che ho celebrato la Santa Messa in quella che era la bellissima chiesa madre di Qaraqosh, dedicata all’Immacolata Concezione. Il sacrificio di Cristo sulla croce viene rinnovato non solo sacramentalmente, ma fisicamente nella via crucis infinita dei cristiani iracheni. Ma il paradosso cristiano sta in questo: una vittoria che nasce da un’apparente sconfitta. Con una certezza: l’Immacolata alla fine trionferà.
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