Pubblichiamo ampi stralci da noi selezionati dell’omelia pronunciata da monsignor Corrado Sanguineti, vescovo di Pavia, lo scorso 9 dicembre in occasione della Solennità di San Siro, primo Vescovo e Patrono della città. I grassetti sono della nostra redazione.
di Corrado Sanguineti*
(…) Se l’uomo riprende a respirare e a costruire, a progettare e a generare, ciò avviene nelle dimensioni costitutive dell’umano, e così lo stesso homo faber diventa soggetto creativo e geniale nella cultura, nell’avventura della conoscenza e della scienza, ma anche nel campo morale, spirituale e religioso. Lo stiamo toccando con mano in questi mesi: se ovviamente è fondamentale l’impegno sanitario per curare, prevenire e guarire, ci sono anche altre dimensioni dell’esperienza umana che vanno custodite e promosse, per la stessa sanità psico-fisica della persona, come la dimensione sociale e relazionale, quella economica e lavorativa, quella dell’arte e della cultura, quella dello spirito e della fede.
Innanzitutto, ora e nell’immediato futuro ancora incerto, non deve mancare il pane della giustizia e della carità: è sotto gli occhi di tutti, l’impoverimento crescente di tante famiglie, e in questi mesi, lo sa bene chi opera nel campo della carità e dell’assistenza sociale, sia gli enti amministrativi, che le varie espressioni del volontariato ecclesiale, come la Caritas, e civile-laico. Purtroppo anche in Italia sta aumentando il fossato che divide i “ricchi” sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, con una lenta erosione del ceto medio, che ha sempre beneficiato di una distribuzione più equa del reddito e del benessere, tipica di un capitalismo più attento alla dimensione sociale e personalista. Ci sono grandi depositi bancari inutilizzati, anche a Pavia, e chi si trova a possedere maggiori risorse e ad amministrare patrimoni più ingenti, frutto d’impegno e di capacità qualificate, dovrebbe sentire una responsabilità più grande verso chi è svantaggiato o sempre più ai margini. Ricordo che nella dottrina sociale della Chiesa, se è riconosciuto il diritto alla proprietà privata e non è demonizzata in sé la ricchezza, è vero che c’è una sorta d’ipoteca sociale sui beni privati, perché la stessa proprietà privata è subordinata alla destinazione comune dei beni, tanto che condividere parte dei propri patrimoni, utilizzarli in ambito anche sociale e filantropico, per promuovere un lavoro giusto e dignitoso e per concorrere con il soggetto pubblico a rispondere ai bisogni più immediati (pane, casa e lavoro), è questione di giustizia, non di carità! (…)
(…) quante famiglie oggi vivono in gravi ristrettezze economiche, quante disparità sociali anche gravi, quanti uomini e donne che hanno perso il lavoro o le risorse essenziali per vivere, il pane quotidiano sulla mensa, e magari si vergognano di chiedere! Quante attività e imprese hanno già chiuso o rischiano di non aprire più, aumentando il numero dei disoccupati e deprimendo la crescita economica del nostro territorio, già affaticato! Quante persone anziane che sperimentano in modo doppiamente drammatico il distanziamento fisico di questi mesi, nelle loro case, nelle strutture di accoglienza e di cura, perché alla solitudine che già vivono per il diradarsi delle relazioni e la lontananza dei famigliari si aggiunge l’isolamento forzato cui la pandemia li obbliga. C’è poi una povertà che non è solo economica, ma è anche povertà di relazioni, di affetti sfigurati da violenze, di cui sono vittime soprattutto le donne e di conseguenza i bambini, povertà di prospettive per ragazzi e giovani lasciati a se stessi, per soggetti più fragili.
Accogliamo questo grido, operiamo, anche in rete, per fare ciò che possiamo, diventando creativi nelle iniziative e nei gesti, per non far mancare il pane che ridà dignità e speranza alle persone ferite dalla vita. (…) Ovviamente ci sono responsabilità specifiche su piani d’intervento differenti, e sono chiamati in causa soggetti diversi: lo Stato, la Regione, la Provincia, le amministrazioni comunali, le associazioni, le imprese, le banche e le fondazioni, le comunità cristiane, i privati. Ci sono poi azioni possibili a tutti, nella condivisione semplice dei bisogni, nello sguardo attento a chi è vicino, nella disponibilità a rendersi attivi nel volontariato, nell’offerta di risorse proprie, sapendo rinunciare a qualcosa di nostro a favore di chi ha poco o non ha nulla.
Insieme al pane della giustizia e della carità, per vivere da uomini, abbiamo bisogno anche del pane dell’educazione e della cultura: non siamo chiamati semplicemente a preservare l’esistenza finché è possibile e nelle migliori condizioni di benessere. Nell’esperienza della pandemia in corso, soprattutto nel mondo occidentale, più ricco e sviluppato, si è resa evidente la debolezza di una posizione esistenziale che, non riconoscendo più un significato trascendente e una destinazione superiore all’esistenza, fa coincidere il senso della vita nella sua conservazione e nell’assicurazione di beni come la salute, il lavoro, la vacanza e il divertimento, la sicurezza sociale, l’esercizio dei diritti individuali. Da qui discende un certo modo un po’ ossessivo e paranoico di affrontare la questione del Covid-19 che rischia di diventare l’orizzonte totale della vita, e da qui deriva la cappa di paura e d’insicurezza che respiriamo: come se la morte, la malattia, la sofferenza non facessero parte dell’esperienza umana, e pertanto non devono esserci, non c’è posto per loro nella nostra concezione di vita, sono il “non-senso” e il male assoluto. (…)
Una concezione della vita e del destino dell’uomo che non abbia da dire nulla sul dolore, sulla morte e sulla finitezza dell’essere umano, se non prospettare il sogno di un’esistenza finalmente senza malattie, che possa proseguire come un’eterna giovinezza e che giunga a superare anche l’estremo limite della morte, come in certe correnti del post-umanesimo e del trans-umanesimo, è una visione senza respiro, incapace d’ospitare l’intera esperienza dell’uomo: in questo campo occorre favorire e far crescere una buona alleanza tra umanesimo secolare e laico, e umanesimo religioso e cristiano, soprattutto qui a Pavia, città universitaria e creatrice di cultura e di bellezza, di scienza e di arte.
Per questo motivo, accanto al pane della mensa, occorre che non manchi il pane dell’educazione e della cultura che permette la coltivazione piena dell’umano e apre il cuore agli orizzonti ampi della realtà, della verità, della bellezza e del bene morale. In questa prospettiva, devono trovare ascolto le voci differenti che esprimono preoccupazioni e riserve sul ricorso prolungato alla “didattica a distanza”. I nostri bambini, ragazzi e giovani devono tornare, in sicurezza nelle aule delle scuole e delle università, senza cadere in un’ossessiva paura dei contagi, per vivere l’esperienza insostituibile del rapporto diretto con i docenti e tra loro. Non mancano gravi danni, a livello psicologico, relazionale e educativo, che la sospensione delle lezioni in presenza comporta e i limiti oggettivi della “didattica a distanza” che, di fatto, per non pochi studenti risulta assai difficile da svolgere, per le condizioni sociali e familiari, e che crea fatiche crescenti nell’attenzione e nell’apprendimento. Come società, come Chiesa, come responsabili del bene pubblico, come uomini di cultura e di pensiero, non possiamo rassegnarci a una generazione abbandonata a se stessa, e accontentarci delle pur lodevoli iniziative d’incontri e di formazione per via telematica. L’educazione e la formazione, anche nell’ambito della comunità cristiana, chiedono un rapporto tra persone, tra volti, e lo stesso processo conoscitivo, per noi esseri umani, ha una componente affettiva ed emozionale: non siamo robot e non viviamo d’algoritmi.
Infine, il cuore dell’uomo ha bisogno anche di un altro pane: il pane di Dio, della sua parola, della sua sapienza. L’esistenza umana chiede un significato, che renda ragionevole e umano vivere: non ci basta conservare e consumare la vita, a differenza degli animali siamo esseri “squilibrati”, non ci ritroviamo nella pura ripetizione dell’istinto e della necessità.
Senza un’ipotesi di senso, noi non viviamo, sopravviviamo. Ora, carissimi fratelli e sorelle, l’esperienza di questi mesi, non ancora conclusa, con il suo carico di sofferenza, di lutti, di solitudine, rimette in campo, in modo vivo, le grandi domande sul senso del dolore, della vita e della morte, sulla possibilità di una speranza che regga anche nelle ore più oscure. Proprio la realtà, vissuta con la sua intensa bellezza e drammaticità, ridesta il senso di un mistero che ci trascende, l’intuizione e il riconoscimento, almeno come possibilità e come apertura dell’essere, di Dio, quale orizzonte ultimo e significato esauriente dell’esistenza. Censurare l’ampiezza di questa apertura, soffocare le domande ultime, come domande senza senso e senza approdo, è la morte dell’uomo. (…)
Come cristiani, come Chiesa di Pavia, sentiamo di avere qualcosa di prezioso da offrire che possa sciogliere l’enigma oscuro della vita e della morte, in un mistero oltre le nostre misure e la nostra comprensione, eppure profondamente umano e pacificante. (…) Celebrare l’Eucaristia, ascoltare insieme la Parola di Dio, ritrovarci intorno alla stessa mensa, è attingere alle fonti della speranza che non delude, è incontrare la presenza viva del Risorto, che ci assicura un destino buono di vita e di risurrezione, oltre la soglia della morte e del tempo. (fonte: Diocesi di Pavia)
*Vescovo di Pavia
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