Il Ministro della Salute l’8 agosto scorso condivideva su Twitter la foto della prima pagina di Repubblica, che titolava: «Aborto, cade l’ultimo no». Speranza scriveva poi: «Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà». Le donne – ha specificato il ministro – «possono tornare a casa mezz’ora dopo aver assunto il medicinale».
A questo è seguito un dibattito, non troppo acceso e neanche particolarmente corposo – solo due mesi dopo infatti, chi ne parla più? – sulle citate linee guida che di fatto tolgono tutele sanitarie alle mamme che hanno deciso di abortire. Sul tavolo sono finite molte questioni importanti come la solitudine nel momento dell’espulsione del feto morto, i relativi rischi per la donna, l’ulteriore privatizzazione dell’aborto, ma non si è parlato del cuore del problema: la soppressione di una vita nel grembo della mamma. Come fosse ormai accettato da tutti.
D’altra parte al concepito si pensa sempre meno. Molti negano all’embrione umano l’identità di persona, eppure anch’egli è portatore dei nostri stessi diritti fondamentali. Di Raffaella Frullone e Alberto Frigerio.
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