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L’affiliazione religiosa protegge le persone nei momenti difficili
NEWS 17 Aprile 2020    di Giuliano Guzzo

L’affiliazione religiosa protegge le persone nei momenti difficili

Chi supererà meglio la pandemia? Se ponete questa domanda a qualunque opinionista della cosiddetta grande stampa, vi sentirete rispondere che le chiavi del futuro post coronavirus appartengono ai più benestanti, ai più intraprendenti, ai più informati e via dicendo. Quasi nessuno, conoscendo il cosiddetto mainstream, vi dirà che chi potrebbe cavarsela meglio, dopotutto, sono le persone religiosamente affiliate, quelle cioè assidue alle messa e alla chiesa. E pensare che questa risposta – quella sui benefici futuri che potranno sperimentare, nonostante tutto, i fedeli praticanti – non è una risposta religiosa, ma laica. Anzi, laicissima.

Stiamo infatti parlando di un punto vista emergente alla luce di una pubblicazione scientifica intitolata Does Religious Affiliation Protect People’s Well-being?, a cura di tre studiosi: Harold Koenig della Duke University, Byron Johnson della Baylor University e Christos Makridis del Massachusetts Institute of Technology, che come noto è una delle più importanti università di ricerca del mondo. Si tratta, più nello specifico, di un lavoro effettuato analizzato i dati del sondaggio giornaliero degli Stati Uniti dell’organizzazione Gallup per ben 11 anni, dal 2008 al 2017.

Ebbene, da tale poderosa e prolungata indagine è emerso che i livelli più alti di benessere soggettivo non solo in determinati periodi – magari quelli economicamente più felici per una comunità – ma in generale, sono quelli delle persone affiliate religiosamente; non solo, cioè, di quelle genericamente credenti, ma proprio di quelle che sono assidue ai servizi religiosi, che si recano spesso a messa e sono attivi nella loro parrocchia. Il che, considerando la laicità della fonte, è una notizia di un certo peso e che lascia immaginare come saranno appunto i devoti, probabilmente, quelli che a livello di benessere individuale meglio supereranno la pandemia.

Che poi tali effetti positivi possano riguardare in primo luogo i cristiani è confermato dalle parole di Byron Johnson, il quale, intervistato in questi giorni a proposito di questo suo studio – che getta una luce nuova sul post Covid-19 -, ha parlato proprio del cristianesimo come antidoto a questo cupo periodo. «Da un oscuro movimento, in soli duecento anni, il cristianesimo divenne una religione mondiale che non solo forniva speranza alle persone», ha spiegato Johnson, «ma insegnava agli aderenti a prendersi cura del prossimo». Fin qui, si tratta di considerazioni condivisibili ma anche arcinote. Che cosa insegna, oggi, la ricerca sull’affiliazione religiosa e, soprattutto, che cosa ha da dire rispetto al coronavirus?

Lasciamo nuovamente la risposta allo studioso della Baylor University: «Quasi 2000 anni dopo, sappiamo da migliaia di pubblicazioni peer review che la fede – spesso misurata in base alla frequenza delle presenze ai servizi religiosi – tende ad essere associata a una serie di risultati positivi: maggiore longevità, meno depressione, meno suicidio, meno fumo, meno abuso di sostanze, minore divorzio, maggiore supporto sociale, livelli più alti di significato e scopo nella vita, maggiore soddisfazione di vita e più impegno civico».

Queste consolidate evidenze, in aggiunta a quanto emerso nel già ricordato paper Does Religious Affiliation Protect People’s Well-being? fanno quindi concludere a Johnson che saranno proprio i più devoti coloro che, nonostante la chiusura delle chiese (parzialmente surrogata dalle funzioni televisive o in streaming), meglio supereranno questo periodo. Il che, detto da un vescovo o da un pastore, sarebbe abbastanza ovvio, ma sottolineato da un ricercatore universitario, peraltro in ottima compagnia, fa capire quanto pregare Dio e rivolgersi a Lui tutto sia fuorché un gesto irrazionale. Anche – ed è qui lo scoop, per così dire – ad occhi laici.


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