Nel settembre scorso avevano mandato in isteria le anime belle del politicamente corretto. Ma i manifesti di Pro Vita & Famiglia in realtà non violavano nessun codice di regolamentazione pubblicitaria e men che meno, offendevano la morale o il buongusto. Certo, forti erano forti, ma proprio questo era l’intento di Toni Brandi e Jacopo Coghe che avevano concepito la campagna proprio per scuotere le coscienze sul tema eutanasia. «Marta, 24 anni, anoressica, potrà farsi uccidere. E se fosse tua sorella?», «Alessandro, 18 anni, bullizzato. Potrà farsi uccidere». E così via, il tutto accompagnato dall’hastag #noeutanasia per una campagna che invece è stata fin da subito osteggiata.
Invece la parola definitiva è arrivata martedì sera al termine dell’udienza del Gran Giurì dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria chiamato a rispondere sulla liceità morale di quei manifesti. Qualche tempo prima era successo che all’IAP erano giunte diverse segnalazioni di protesta che avevano costretto il comitato di controllo ad aprire un fascicolo e poi a trascinare la Onlus romana davanti ai giudici.
I quali, martedì hanno sostanzialmente dato il via libera ai manifesti che ora potranno essere affissi in tutt’Italia. Pro Vita & Famiglia canta vittoria: «Ha vinto la verità, i nostri manifesti sono legittimi», ha spiegato Coghe dopo l’udienza che si è svolta a Milano. «Contraria al decoro e al buon senso è la dittatura del politicamente corretto invece e di chi vuole violare il diritto inalienabile alla vita. Ora si sappia che le nostre affissioni di manifesti-denuncia a Roma e Milano e poi in altre città italiane erano regolari, si tratta di una comunicazione onesta, veritiera e corretta caro Cappato e cari radicali e non c’è una “esagerazione della problematica sociale” né si tratta di “richiami choccanti», hanno ribadito.
Il giorno dopo al Timone, Coghe non ha nascosto la sua soddisfazione: «I testi che abbiamo mostrato sono testi che ricordano un pericolo reale: quello che potrebbe accadere se il nostro Parlamento legiferasse in materia di eutanasia e suicidio assistito. E’ una prospettiva che in altri Paesi, purtroppo, ha già preso forma con l’auto-eliminazione dei depressi, dei fragili, dei deboli dalla società”.
Non restano che le scuse secondo Coghe, da parte di quei parlamentari e i sindaci dei Comuni «che ci hanno fatto una guerra ideologica impedendoci il diritto di opinione e la libertà di pensiero».
C’è poi un dettaglio che rende ancora più dolce la vittoria pro life: «E’ la terza volta che ci chiamano in causa con l’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria – ha proseguito Coghe -. La prima è stata con la campagna di CitizenGo sul Bus della libertà nel quale avevamo dato “scandalo” dicendo che “i bambini sono maschi e le bambine sono femmine”. La seconda era una campagna di affissioni contro l’utero in affitto in cui dicevamo che “due uomini non fanno una madre” nella quale raffiguravamo dei bambini sul carrello della spesa. Entrambe le vote ci hanno dato ragione». E con questa fanno tre.
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