Si leva il Giappone, come il sole, ogni mattina, e ricomincia da dove aveva lasciato il giorno precedente. Ordine all’esterno, spesso al prezzo di vite e famiglie, ma all’interno, ciascun giapponese è come ogni altro uomo che non ha conosciuto Cristo, profondamente solo. E’ un dolore antico, come una incrostazione di millenni che serra il cuore, occorre il bisturi per inoltrarsi tra i sedimenti di abitudini che ostruiscono la via alla verità.
L’idolo dell’organizzazione
I suicidi si moltiplicano in un Paese tra i più sicuri del mondo, chiusi i sentimenti e le idee nel rifugio antiatomico del loro intimo, i giapponesi si sentono protetti proprio dall’uniformità stabilita dalle regole che governano relazioni, famiglia e società. Se è tutto già stabilito non c’è davvero da temere. Non i propri errori, perché di proprio non c’è nulla. Non la personalità, schiacciata nel pensare comune dall’educazione.
Questa barriera protettiva che produce risultati economici e garantisce una società senza apparenti sbavature è come un laccio che ti soffoca piano piano. Te ne accorgi nelle lunghe traversate in metropolitana, proprio a Tokyo, medaglia d’oro della sicurezza. Se tra tanti occhi chiusi dalla stanchezza hai la fortuna di scorgerne due ancora aperti e non inchiodati su un display, lo capirai. Gli occhi dei giapponesi, infatti, hanno visto la durezza dell’educazione impartita, la cauterizzazione di qualunque sentimento, persino quelli materni e paterni. Hanno visto l’abisso delle gerarchie sociali schiudersi sotto i piedi come fossati a difendere castelli; hanno visto i propri nomi sciogliersi come in un acido, quello del titolo di studio, della mansione lavorativa, della posizione sociale, e perdere così identità, hanno visto traslochi e sradicamenti, perché il Giappone, prima della famiglia e dell’amicizia, è l’unica e vera appartenenza.
Hanno visto manager barcollare zuppi d’alcool sui marciapiedi dei fine settimana, estremi tentativi per togliersi di dosso ansie e frustrazioni, divertimenti obbligati, attività sportive telecomandate, e si sono scoperti burattini dentro lo schermo di una playstation; hanno visto ragazzine vendersi ai maschi che desiderano carne fresca; hanno visto le perversioni più turpi, sciami di ragazzi – gli “hikikomori” – eclissarsi nelle proprie stanze e non uscirvi più, hanno visto menti rarefatte raccolte da pasticche ansiolitiche che uccidono l’anima.
Si può restare affascinati di fronte alle immagini di un popolo che sembra saper reagire con ordine e disciplina anche di fronte al terremoto, ma quello che si vede in superficie è piuttosto il frutto di un’assenza. In Giappone manca qualcosa, quasi non ci sono tracce di cristianesimo. Allora l’unica domanda è: come potrà credere un giapponese se non vedrà Cristo vivo nei cristiani?
Missione e testimonianza
Anche qui, come ogni nazione, c’è bisogno di martiri, testimoni della vita celeste come quelli che hanno versato, a migliaia, il sangue anche su questo suolo. Oggi ricordiamo i più famosi, i 26 che hanno disteso le braccia sulla croce piantata su una collina di Nagasaki. Non erano passati neanche cinquant’anni dal giorno in cui San Francesco Saverio sbarcò al sud del Paese. La testimonianza dei missionari e il cambio radicale di vita dei primi neofiti avevano fatto crescere la comunità cristiana che, per il solo fatto di esserci è stata un “segno di contraddizione”. Uniti ai loro pastori i cristiani giapponesi, liberati dalla seduzione del peccato e dell’idolatria, cominciavano a dare fastidio al potere.
Anche oggi sotto la cenere arde la brace, un piccolissimo resto scoppiettante di zelo. E io li vedo vivere cristianamente in mezzo al paganesimo, issare la speranza tra le macerie della disperata routine. Le famiglie italiane e spagnole che sono qui in missione, unite ai fratelli giapponesi nelle piccole comunità cristiane, annunciano il Vangelo testimoniando l’amore che supera ogni barriera.
(L’articolo nella sua versione integrale è pubblicato sul Timone n° 189)
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