Le «mamme surrogate» chiedono una modifica della legge sull’utero in affitto per dare la responsabilità legale ai «genitori di intenzione» del neonato nel momento stesso della nascita. A riportare la notizia è il quotidiano Times che spiega che al momento coloro che commissionano il bambino alla cosiddetta «mamma surrogata» prima di ottenerne la responsabilità genitoriale devono passare da un tribunale, processo che può richiedere molti mesi. Da qui quindi la richiesta di velocizzare le pratiche e chiudere quindi il «rapporto di lavoro» alla «consegna del prodotto». Cinico ma anche tremendamente banale, come il male. D’altra parte a furia di normalizzare una pratica che reifica i bambini e sfrutta le donne come fossero schiave siamo giunti quasi a considerare quella della «surrogata» una vera e propria professione.
Per comprendere la portata del fenomeno basta dare un’occhiata a Instagram, in particolare seguendo hashtag come #surrogate #surrogatemom #surrogatejourney #surrogatemoterhood e affini. Vi si aprirà davanti agli occhi uno scenario raggelante nella sua apparente normalità e leggerezza.
Alysha ha chiamato il suo account «me_and_the_c_twins» e nella sua bio si presenta così: «Mamma di un bambino, orgogliosa surrogata di due gemelli identici attesi per fine anno. Seguici nel nostro viaggio per incontrare i loro paparini». Angelica invece si presenta così: «Ciao, sono una mamma orgogliosa di un bambino di 3 anni e una bambina di 1 anno. Io e mio marito siamo entusiasti di dare al nostro “papà di intenzione” un figlio tutto suo». E ancora Michelle che si presenta semplicemente come «mamma, ostetrica e surrogata».
Sono account apparentemente normali, con foto di vita quotidiana, il viaggio, la cena fuori, la gita con i bambini, intervallati da scatti che immortalano ecografie, siringhe utilizzate per iniettare ormoni, pancioni con la scritta: «my oven, their bun» ovvero «il mio forno, la loro pagnotta», dove la pagnotta è un bambino portato in grembo da una donna per contratto e ceduto ad altre persone poco dopo il parto. Come fosse appunto un oggetto, un prodotto.
Non mancano le stories e i post in cui queste donne con naturalezza raccontano quello che chiamano #surrogatejourney, ovvero il viaggio della maternità surrogata. Erika, dal Texas, lo racconta così: «Sono incinta, ragazzi! No, non è il figlio di Juan, ma lui mi accetta ancora perché il bimbo non è neanche mio. Poco più di un anno fa ho coronato il mio sogno di diventare una “mamma surrogata”. Ho incontrato i miei “genitori di intenzione” ad agosto e da allora ci sentiamo ogni giorno. Non sono una mamma, sono una cicogna umana. Abbiamo iniziato il processo in Canada. Botte di progesterone giornaliero, pillole, estrogeni. Ci sono voluti due round e due transfer. Se potessi, aiuterei tutte le donne che conosco a creare la propria famiglia». Neanche una menzione al bimbo concepito in questo modo, magari se potesse parlare anche lui chiederebbe aiuto. Magari chiederebbe di stare con la sua mamma. E se Erika descrive così l’inizio del suo “viaggio”, Michelle racconta “la fine”. «Il nostro vlog sulla nascita è ora sul mio canale. Prendi una tazza di caffè, uno spuntino e una scatola di fazzoletti di carta e guarda il video completo, incluso il filmato in diretta su di me che consegno il piccolo Jack alla sua mamma di intenzione! È lungo ma il video più sorprendente di sempre. Sono così felice che abbiamo questi ricordi su cui guardare indietro, Jack è nato in una stanza che esplode assolutamente con amore! (link in bio)».
Questo è l’utero in affitto oggi, uno show da vedere la sera sul divano, per rilassarsi, come di fronte all’ultima serie di Netflix. Come se non ci fosse un bambino coinvolto, come fosse tutto normale. Il male è banale.
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