Si chiama eterogenesi dei fini ed è un principio, formulato per la prima volta da Giambattista Vico (1668-1744), secondo cui nella storia può accadere che l’uomo, nel tentativo di perseguire determinate finalità, giunga poi a realizzare conclusioni opposte. Trattasi, in buona sostanza, della forza dell’imprevedibile. Esattamente quanto sta accadendo negli Usa dove i paladini dell’abortismo, accecati dal loro furore ideologico, pare abbiano fatto male i loro conti.
Si allude, qui, alla nuova normativa varata dallo Stato di New York del governatore Cuomo sulla soppressione prenatale fino al nono mese, e alle dichiarazioni del governatore della Virginia, Ralph Northam, il quale ha affermato che considera legale lasciar morire un bambino nato vivo. Due passaggi drammatici che non sembrano essere piaciuti, udite udite, manco ai pro choice. Lo attestano diversi sondaggi, due in particolare.
Il primo, realizzato da YouGov il 6 e 7 febbraio in collaborazione con Aul, acronimo che sta per Americans United for Life, ha riscontrato come il 68% degli americani abortisti si opponga all’aborto al nono mese, con il 66% di essi contrario anche a quello nel terzo trimestre e il 77%, sempre del campione pro choice, avverso alla rimozione delle cure fetali e neonatali allorquando un bimbo dà segni di vita. Una sorpresa demoscopica a cui ne è seguita un’altra, addirittura più grande.
Infatti, un sondaggio ancora più recente, eseguito dal Marist College Institute for Public Opinion con interviste telefoniche condotte tra il 12 e il 17 febbraio su un campione di 1.008 adulti statunitensi, ha rilevato come attualmente i pro life e i pro choice si equivalgano, ammontando entrambi al 47%. Può apparire un dato banale, ma in realtà è qualcosa che da quella parti non accadeva dal 2009. Cos’è successo? La risposta ci viene da un confronto tra quest’ultima rilevazione di febbraio ed una condotta a gennaio sempre a cura del Marist College, secondo cui nel giro di appena un mese i democratici che si identificano come pro life sono saliti dal 20 al 34% del totale.
In altre parole, più che un aumento dei difensori della vita nascente si è registrata una drastica defezione in seno al fronte abortista. Di qui la necessità di rispolverare la cara vecchia eterogenesi dei fini, per spiegare un piacevole imprevisto che i pro life ma neppure gli stessi paladini dell’aborto, c’è da scommetterci, avevano previsto.
In realtà, la storia degli ultimi decenni, soprattutto statunitense, è costellata di abortisti anche celebri convertitasi alla causa per la vita – si pensi a Bernard Nathanson (1926–2011) o a Norma Leah McCorvey (1947– 2017) -, tuttavia un aumento dei pro life del 14% tra i democratici, per di più nel giro di poche settimane, è qualcosa che non ha davvero eguali; e che dovrebbe far riflettere il fronte abortista che, con le sue recenti corse in avanti, sta in realtà collezionando – sondaggi alla mano – clamorosi autogol. Ma forse tutto ciò non è causale.
Forse l’aumento dei difensori della vita nascente in casa progressista, più che di una gestione maldestra di una propaganda abortista eccessiva fino a diventare respingente, è frutto di altro. Per esempio, della forza della verità. La verità del riconoscimento che, anche prima della nascita, siamo in presenza di un essere umano, anzi di una persona. Una persona che, come tale, merita di essere rispettata e tutelata. Un fatto a lungo contestato ma che oggi, a quanto pare, sempre meno persone, perfino nei partiti storicamente abortisti, si sentono di mettere in discussione.
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