C’erano una volta gli incontri di «dottrina», in occasione dei quali i bambini erano chiamati ad imparare a memoria un’articolata serie di domande e risposte. Poi, dopo il Concilio Vaticano II, la «dottrina» si è fatta catechesi, cioè approfondimento formalmente meno rigido e centrato sulla figura di Gesù. Un passaggio, questo, che tra le varie cose, negli anni, ha determinato l’abbandono di un esercizio fondamentale: quello dell’acquisizione mnemonica delle formule del Catechismo. Di più: lo stesso Catechismo è scivolato nel dimenticatoio, acquisendo una fama sinistra: quella di un manuale polveroso, consultato assiduamente solo da implacabili maniaci di un rigore teologico e morale che, di evangelico, avrebbe ben poco.
Ma tale visione stereotipata del Catechismo non sarebbe stata possibile se, all’abbandono della memorizzazione, non si fosse accompagnata anche la perdita di consapevolezza della sua importanza. E pensare che proprio su questo aspetto non un seminarista di periferia, bensì un pontefice – per giunta santo -, Giovanni Paolo II, ebbe a spendere parole molto chiare.
Lo fece, per la precisione, neppure in un pronunciamento occasionale ma in un documento ufficiale, l’esortazione apostolica Catechesi tradendae, interamente incentrata proprio sulla catechesi nel nostro tempo e pubblicata nel 1979, nel secondo anno di quello che si sarebbe rilevato, come sappiamo, un pontificato pluridecennale.
Ebbene, in quel testo papa Wojtyła si dimostrava, come suo solito, estremamente acuto. Infatti, non soltanto ribadiva l’importanza della memorizzazione, ma collegava l’abbandono di questo esercizio al declino stesso della religione.
«Una certa memorizzazione delle parole di Gesù, di importanti passi biblici, dei dieci comandamenti, delle formule di professione di fede, dei testi liturgici, delle preghiere fondamentali, delle nozioni-chiave della dottrina», evidenziava san Giovanni Paolo II, «lungi dall’esser contraria alla dignità dei giovani cristiani, o dal costituire un ostacolo al dialogo personale col Signore, è una reale necessità […] Bisogna essere realisti. I fiori della fede e della pietà – se così si può dire – non spuntano nelle zone desertiche di una catechesi senza memoria. La cosa essenziale è che questi testi memorizzati siano al tempo stesso interiorizzati, compresi a poco a poco nella loro profondità, per diventare sorgente di vita cristiana personale e comunitaria».
Interessante è rilevare come il pontefice polacco non accusasse a priori una certa varietà delle forme della catechesi; semplicemente, era consapevole come tutto debba essere sempre volto, anche in questo ambito, alla fedeltà verso il Signore. «La pluralità dei metodi nella catechesi contemporanea», notava Wojtyła «può essere segno di vitalità e di genialità. In tutti i casi, quel che importa è che il metodo prescelto si riferisca, in definitiva, a una legge che è fondamentale per tutta la vita della chiesa: quella della fedeltà a Dio e della fedeltà all’uomo, in uno stesso atteggiamento di amore».
Che dire, si tratta di considerazioni che si stenta a credere abbiano 40 anni, tanto sono attuali. Sono quindi riflessioni che meritano una volta di più di essere meditate, dal momento che, come si diceva poc’anzi, la memorizzazione delle formule del catechismo è anche memorizzazione dalle fede e dei suoi fondamenti. Di qui l’auspicio che questo antico ma fondamentale esercizio venga riscoperto sia dai semplici fedeli, a partire dai bambini, sia dagli stessi pastori, i quali nella precisione della loro conoscenza hanno la possibilità di guidare più saggiamente, peraltro in tempi di grande confusione, le loro comunità. Perché una catechesi improvvisata, oltre ad essere «senza memoria», come denunciava Giovanni Paolo II, è pure senza futuro.
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