Per Gianni Brera il futbol era “il gioco più bello del mondo”. Lo diceva quando si giocava ancora con le maglie dall’1 all’11, ogni numero un ruolo; gli stranieri per ogni squadra di club erano al massimo due; le partite si giocavano la domenica e il mercoledì era il giorno delle coppe (UEFA, Campioni e Coppa Coppe). Poi venne il calcio muscolare, in tutti i sensi. Squadre sempre più corte, ritmi di gioco e numero di partite in crescita esponenziale, TV ovunque, campioni sempre più star.
Anche il calcio, come la vita, è andato perdendo il suo alone romantico e tradizionale, per assumerne uno “moderno” sempre più vincolato al denaro e interessi vari. Il calcio in questa sua trasformazione ha subito un po’ la vicenda che ha attraversato la vita quotidiana di tutti noi in questi decenni: ritmi sempre più accelerati, sempre meno spazio alla fantasia e sempre più allo schema, al modulo. Anche i ruoli sono saltati, almeno quelli che tutti conoscevamo. Non c’è più lo stopper duro e puro, né il libero, adesso c’è il difensore centrale, così come è sempre più raro sentir parlare di mezze ali o mediani o fantasisti.
Si è cominciato a guardare sempre più dall’alto in basso il catenaccio, quello che Nereo Rocco teorizzava come essenza del suo football. Il risultato di pareggio, esteticamente poco attraente, è andato perdendo il suo fascino, invece, è proprio quello che ci fa capire cosa è successo al nostro modo di intendere la vita. Un pareggio a reti bianche, magari ottenuto contro qualcuno di più forte e contro ogni pronostico, è una profonda metafora della vita. Perché nella vita non sempre si può vincere e molte volte, a prezzo di grandi sacrifici, è più facile dover lottare per un pareggio che palleggiare sul velluto. E bisogna saperlo fare giocando di squadra, magari quella della propria famiglia o degli amici. Così si muove la classifica e si continua a sperare, senza disperare. Accettare i piccoli sacrifici quotidiani è un segreto di felicità.
Tutto ciò è profondamente cattolico, una fede che si fonda sul sacrificio e non sui facili sentimenti, un sacrificio vittorioso, per certi versi perfino gioioso. Dalla sofferenza più assurda, quella di un Uomo-Dio, nasce il bene più grande.
Il gioco all’italiana veniva accusato di fare “melina”, di chiudersi in difesa e pensare più a rompere che a costruire, ma soffrendo nelle retrovie è molto facile che l’avversario si scopra e lasci spazio ad un contropiede inesorabile. Anche Dio ha scelto questa strada, ha offerto il Figlio, l’ha lasciato in balia degli attacchi dell’Avversario, apparentemente sconfitto. Ma il goal che ha segnato sulla Croce non lascia più spazio all’avversario che non può far altro che scendere negli spogliatoi e rimanerci. Il Crocifisso l’ha preso in contropiede, una volta per sempre. 1-0 e fischio finale. Una partita memorabile, la partita della vita.
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