«L’altare venne eretto su di una roccia e ad assistere al Sacrificio Divino sono accorsi i soldati in gran numero», annota Stefanino Curti, Capitano degli Alpini, 2° Reggimento Imola. «Questa messa celebrata quassù in alto, su di un altare improvvisato, all’aria aperta, circondato dai miei bravi Alpini, lascerà certamente impresso un ricordo che non si potrà mai più cancellare»
Sull’animo religioso dei soldati italiani impegnati nella Grande Guerra si è scritto tanto, e tanto si dovrebbe dire di quei cappellani militari che li accompagnarono fin dentro le trincee, lì dove fecero scendere il Pane del Cielo e ogni altro umano conforto morale e spirituale. Banditi dall’esercito dopo l’unità nazionale, i cappellani vennero reintrodotti da una circolare del Generale Cadorna nella primavera del 1915 proprio per il periodo bellico: si trattò di circa 2.200 cappellani inquadrati nell’esercito, più altri preti e chierici arruolati per lo più come aggregati alle sezioni sanitarie, per un totale di 20.000 presenze. A capo di questo vero e proprio esercito nell’esercito fu posto Mons. Angelo Bartolomasi, il Vescovo da Campo istituito per legge e scelto da Benedetto XV.
Nella sua lettera pastorale del dicembre 1915 il vescovo Bartolomasi ricordava ai cappellani militari «che l’esperienza della guerra ci ha detto che sotto il polverio e sotto il freddo soffio dell’indifferenza religiosa c’è ancora molto calore di fede».
Questo “calore” caratterizzò i nostri soldati, i quali, a differenza di altri (inglesi, francesi e tedeschi), erano assai meno ideologizzati. L’unità d’Italia era cosa recente e, soprattutto nella campagne, la gente aveva assistito alla conquista sabauda con molto meno trasporto di quanto si voleva far credere. Il nerbo di quell’esercito erano proprio contadini e operai, gente semplice, ma robusta di fisico e di mente, cresciuta al suono delle Ave Maria recitati nelle aie, alla scuola del lavoro duro e della famiglia.
Il sacerdote salesiano don Silvio Porrini (1880-1935), cappellano militare del 160° Reggimento, scrive a don Albera, secondo successore di don Bosco, e sottolinea l’importanza dell’educazione alla fede ricevuta in famiglia dai suoi soldati. Per don Porrini, che scrive nell’agosto del 1915, il suo è il migliore reggimento della Divisione, «basta dirle che […] tutte le sere è enorme il concorso di questi bravi giovanotti a recitare il Rosario e poi si succedono a gruppi tra di loro e recitano quelle preghiere che appresero in famiglia» (cfr. L. Rullini, Don Bosco in trincea, Elledici 2008). Non si sbaglia di molto se si ammette che proprio la fede fu il vero punto di forza di quella fanteria italiana che, composta in larga parte da contadini, si sacrificò in molti casi come vera e propria “carne da macello”. Con lo sguardo al cielo tutto, anche la sofferenza più atroce, diventa in un certo senso accettabile perchè vissuta come volontà di Dio.
Tra quei cappellani e religiosi che parteciparono alla Grande Guerra, “l’inutile strage”, si trovano anche santi da altare. Tra gli altri san Riccardo Pampuri, quel tenente Erminio che si meritò una medaglia per azioni eroiche durante la ritirata di Caporetto, San Giovanni XXIII che fu tenente di fanteria e poi cappellano nell’ospedale militare di Bergamo, il beato Giulio Facibeni, medaglia d’argento al valore, che dopo il conflitto fondò l’Opera Madonnina del Grappa per gli orfani di guerra. E molti altri, su diversi fronti.
La vita di trincea della Grande Guerra fu, per chi c’era dentro, come un lungo tempo dilatato tra la vita e la morte, un anticipo di inferno in cui per riuscire a vincere la paura, resistere alla sofferenza e poi, addirittura, ribaltare le sorti di Caporetto, occorreva qualcosa in più delle sole forze umane. Tanti italiani che per la prima volta si trovarono insieme per combattere, scoprirono che le loro radici cristiane erano capaci di fornire quell’arma spirituale che, a ben vedere, rappresenta il vero carattere di qualsiasi uomo.
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