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Le mode e la scelta di «cambiare sesso», un nuovo studio mostra il legame
NEWS 5 Settembre 2018    di Ermes Dovico

Le mode e la scelta di «cambiare sesso», un nuovo studio mostra il legame

L’influenza sociale, la visione continua di immagini e video che illustrano la possibilità di «cambiare sesso», la crescita in contesti familiari in cui si rifiuta la morale naturale (innanzitutto la complementarità uomo-donna e l’unicità del matrimonio) sono tra le cause principali che influiscono sulla crescente confusione degli adolescenti rispetto alla propria identità sessuale. È quanto emerge da uno studio pubblicato lo scorso 16 agosto su Plos One, un giornale basato sulla peer-review («riesame dei pari»), e condotto dalla ricercatrice e medico statunitense Lisa Littman, che lavora come assistente universitaria in scienze sociali e comportamentali alla Brown University.

Lo studio mette in luce una realtà sempre più dimenticata, che è l’esatto opposto dell’ideologia secondo cui il sesso sarebbe un «costrutto culturale», anziché un dato biologico. Non sorprende perciò quanto avvenuto nei giorni successivi alla sua pubblicazione e gli attacchi delle associazioni Lgbt, che si sono appigliate pretestuosamente alla metodologia usata (pazienza se simili scrupoli metodologici manchino proprio negli studi condotti da attivisti o ricercatori vicini alla galassia arcobaleno). La Brown University, dopo le pressioni ricevute, ha eliminato dal proprio sito l’articolo che parlava dello studio della Littman, adducendo tra i motivi che le conclusioni della ricerca «potrebbero essere usate per screditare gli sforzi a sostegno dei giovani transgender e invalidare le prospettive dei membri della comunità transgender». Il resto del comunicato della Brown University è un insieme di contraddizioni, su tutte il fatto che le ricerche vanno dibattute con vigore «perché questo è il processo attraverso il quale alla fine avanza la conoscenza» (allora come si spiega la censura? Forse perché bisogna far avanzare un solo tipo di «conoscenza»?), e si piega perfettamente al frasario tipico della neolingua.

Lo studio della Littman è stato condotto attraverso questionari online di 90 domande (a risposta multipla, a risposta aperta, con scala Likert), compilati secondo i criteri di riferimento da 256 genitori. L’indagine è nata dopo aver constatato – attraverso la lettura di forum online di genitori preoccupati per i loro figli – quella che l’autrice chiama «disforia di genere a rapida insorgenza», ossia la comparsa improvvisa di una confusione sulla propria identità sessuale durante o dopo la pubertà. Gli adolescenti e giovani adulti (AYA, nell’acronimo inglese) descritti dai genitori sono per l’82.8% di sesso femminile, con un’età media di 16.4 anni. L’aspetto interessante è che «nessuno degli AYA descritti in questo studio corrisponderebbe ai criteri diagnostici per la disforia di genere nell’infanzia».

Già questa sola affermazione fa traballare tutta la teoria che è stata elaborata negli ultimi anni per spiegare e normalizzare via via la transessualità (secondo un percorso simile già seguito con l’omosessualità). Continua lo studio: «Infatti, la stragrande maggioranza (80.4%) aveva zero indicatori dei criteri diagnostici del DSM-5 per la disforia di genere infantile, con il 12.2% in possesso di un indicatore, il 3.5% con due indicatori e il 2.4% con tre indicatori», laddove gli indicatori previsti dal DSM-5 (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, giunto alla quinta edizione ed elaborato dall’Apa, un’associazione di psichiatri americani) sono in tutto otto e, per poter parlare di «disforia di genere», esso prevede che il bambino manifesti almeno sei indicatori su otto.

Come si può spiegare allora la rapida insorgenza della confusione sessuale in questi adolescenti? Lo studio rivela che «la stragrande maggioranza dei genitori favoriva il diritto delle coppie gay e lesbiche di sposarsi legalmente (85.9%) e credeva che le persone transgender meritassero gli stessi diritti e tutele di altre persone nel loro Paese (88.2%)» (e qui la frase va letta considerando tra i «diritti» le pretese tipiche del transessualismo). Inoltre, nel 21.5% dei casi gli adolescenti in questione appartengono a un gruppo in cui uno o più amici sono diventati sessualmente confusi e hanno fatto il «coming out» all’incirca nello stesso periodo; nel 19.9% dei casi hanno manifestato un uso accresciuto dei social media (in particolare, i genitori segnalano «un’indigestione di video di transizione su Youtube e un eccessivo uso di Tumblr») prima dell’insorgenza della confusione; e nel 45.3% dei casi sono stati notati entrambi i fenomeni: sommando le tre caratteristiche si arriva all’86.7% di situazioni assimilabili all’influenza sociale.

Il 48.4% degli adolescenti avevano avuto un’esperienza traumatica o stressante prima della comparsa della confusione sulla propria identità maschile o femminile, come violenze sessuali, disturbi psichici, problematiche in famiglia – tra cui il divorzio dei genitori, la morte di un familiare o il disturbo mentale di una persona cara – e altro ancora. Dopo il coming out la situazione di questi giovanissimi è perfino peggiorata, includendo comportamenti come «l’esprimere sfiducia nei confronti delle persone non transgender (22.7%); interrompere il tempo trascorso con amici non transgender (25%); cercare di isolarsi dalle loro famiglie (49.4%) e fidarsi solo delle informazioni sulla disforia di genere provenienti dalle fonti transgender (46.6%)».

Lo studio conferma la drammatica realtà legata allo stravolgimento dei significati del proprio corpo, uno stravolgimento che invece la cultura dominante – in primis il circuito mediatico – asseconda parlando di «rispetto» e «amore» per l’altro e appoggiando le varie rivendicazioni dei gruppi che promuovono il transessualismo. Ci sarebbe da aiutare queste persone a superare il loro malessere che spesso è solo transitorio, come ben spiegato in un documento dell’American College of Pediatricians, e invece vengono perfino incoraggiati lungo una strada distruttiva.


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