Un pub in fila all’altro da cui proviene musica a tutto volume, giovani ma anche cinquantenni accalcati a bere birra senza poter parlare fra loro. Sui marciapiedi uno stuolo di barboni convive con la Liverpool del divertimento popolare come se nulla fosse. È così che le democrazie occidentali ci hanno rubato la libertà in cambio di un po’ di benessere? È così che il welfare state è riuscito per anni a tenere buoni i suoi cittadini, offendo loro l’indispensabile dalla culla alla tomba, per avere la potestà su di loro? Una nuova inquietudine mi assale mentre torno a camminare per le strade della città che ha detenuto per mesi Alfie Evans, morto a 23 mesi, condannandolo a morte perché la sua “qualità di vita” non raggiungeva gli standard fissati dall’eugenismo britannico.
Eppure, i genitori di Alfie, due giovani ventenni della classe popolare – Thomas Evans e Kate James – hanno fatto qualcosa di straordinario, incrinando gli ingranaggi di una democrazia solo apparente.
Perché la vicenda di Alfie Evans ha toccato il cuore di milioni di persone in tutto il mondo? Molti fattori hanno certo contribuito a farlo diventare un caso internazionale, non ultimo il fatto di assistere allo spettacolo di un malato, inerme bambino di 23 mesi lottare con forza – grazie ai suoi genitori – contro un sistema di potere che lo voleva morto. Ma c’è una questione di fondo che, più o meno consapevolmente, tocca la ragione più che il cuore e che ci fa dire che la battaglia di Alfie è la battaglia di ognuno di noi.
Perché Alfie doveva morire? Perché non avendo alcuna speranza di guarire e probabilmente una bassissima aspettativa di vita, la sua vita è stata giudicata “futile” da medici e giudici. Inutile, non degna di essere vissuta. Non è solo una questione economica, per quanto anche questo aspetto non sia irrilevante in paesi occidentali dove la spesa sanitaria raggiunge livelli di guardia. Il concetto di inutilità va molto oltre e si riferisce a una concezione ridotta della vita, del suo significato, del perché siamo al mondo…
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