«È questo il dramma di un uomo o, meglio, di un’intera umanità che, perseguendo la pura efficienza e non volendo più riconoscere i propri limiti, mira sempre a nuove performances, prestazioni che comunque – e questo va tenuto ben fermo – ogni macchina può raggiungere prima e meglio. Noi, infatti, non eguaglieremo mai la velocità di calcolo del più desueto dei computer e non riusciremo, mai, a sviluppare la minima quantità della forza d’urto del più piccolo mezzo meccanico.
Siamo immersi e facciamo parte, senza neppure accorgercene – grazie al martellamento mediatico -, di una cultura funzionalista e utilitarista per cui ci interroghiamo solo su come avvengano le cose e non sul perché avvengano o esistano.
Sì, solo le affermazioni capaci d’andar oltre la pura verifica sperimentale e il mero calcolo quantitativo dicono la dignità di un sapere che sia all’altezza dell’uomo.
Se rimaniamo chiusi all’interno di una visione del mondo che attinge solo i mezzi e non raggiunge più i fini, se ci fermiamo alla pura verifica sperimentale e al mero calcolo, allora non possiamo sapere più nulla di veramente umano; secondo una mentalità non certo minoritaria, il discorso sui fini rimane ostaggio della soggettività umana e quindi non ha valore universale. Così, tutto ciò che esula dal metodo scientifico (razionalità sperimentale), appartiene al mondo prescientifico – in altre parole al mito – e fa parte, quindi, della leggenda; è una pura fiaba, appartiene ad un passato che non esiste più.
Tale posizione, però, rende problematici considerare degni dell’uomo quei saperi che, in realtà, fondano e rendono possibile l’umana convivenza: il diritto (la giustizia), l’etica (il bene), l’arte in tutte le sue manifestazioni (il bello) e, prima ancora, la filosofia (il vero)». (Omelia del Patriarca Francesco Moraglia, Solennità dell’Epifania, Basilica cattedrale di S. Marco Venezia, 6 gennaio 2018)
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