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3.12.2024

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Imparare lo sport per imparare la vita. Intervista a Massimo Camisasca
4 Giugno 2014

Imparare lo sport per imparare la vita. Intervista a Massimo Camisasca

Parla monsignor Camisasca, vescovo di Reggio Emilia: occuparsi di giovani e ragazzi, creando luoghi di incontro dove potersi conoscere, giocare insieme e avere obiettivi comuni. Ma non si vive solo di allenamenti e di gare. La vita è più ampia

 

 

«San Paolo ha riconosciuto la fondamentale validità dello sport, considerato non soltanto come termine di paragone per illustrare un superiore ideale etico e ascetico, ma anche nella sua intrinseca realtà di coefficiente per la formazione dell’uomo e di componente della sua cultura e della sua civiltà». Sono parole pronunciate da san Giovanni Paolo II, il Papa che anche come successore di Pietro non rinunciava a lunghe sciate sull’Adamello, nel messaggio per il Giubileo degli sportivi del 1984. Ma davvero sport e fede possono avere dei punti in comune? Lo abbiamo chiesto a Massimo Camisasca, vescovo di Reggio Emilia- Guastalla, che dal 1986 al 1991 è stato il cappellano della squadra di calcio del Milan, allora allenata da Arrigo Sacchi.

 

Spesso sport e fede vengono considerate due esperienze diametralmente distanti. Lo sport prevede l’uso di forza fisica, a volte la presenza di un avversario, e appare quasi interamente proiettato sul corpo. Eppure praticare attività sportiva non soltanto può far bene allo spirito, ma addirittura rafforzare il senso religioso. Come?

«A prima vista lo sport riguarderebbe soltanto il corpo. In realtà, è l’uomo intero che si allena e gareggia. Grande importanza hanno le ossa, i muscoli, il cuore e i polmoni, ma altrettanta ne ha il cervello, la mente e anche i sentimenti e le passioni. Gesù ha portato nel mondo una considerazione intera dell’uomo: spirito nella carne, spirito che non può vivere senza la carne, carne che non può vivere senza l’anima. Una vera educazione, dunque, deve tenere presente tutte queste dimensioni dell’uomo e un autentico sport serve proprio a considerare quanto la persona umana sia complessa e quanto sia necessario far camminare in avanti tutti i doni che vi sono raccolti. Soltanto una visione spiritualistica della fede sarebbe contraria allo sport, una visione che vedesse nella realtà materiale soltanto negatività. Ma anche in questo caso non potrebbe prescindere dalla corporeità per poter liberare l’anima che c’è nell’uomo. In conclusione, occorre guardarsi dall’idolatria del corpo, dal corpo considerato come fine a se stesso, da vezzeggiare, da profumare come se la bellezza estetica fosse riconducibile al valore supremo della persona umana. Uno sport autenticamente inteso porta invece in sé valori spirituali molto grandi: la necessità dell’allenamento insegna all’uomo e alla donna che non si può ottenere nessun bene senza sacrificio, donazione, regolarità; la necessità di avere degli obiettivi, anche alti, da poter raggiungere; l’educazione a saper metabolizzare la sconfitta e a saper ricominciare. Sono tutti valori spirituali molto importanti per la vita dell’uomo e della donna che l’attività sportiva insegna».

 

Lo sport nasce come gioco, eppure prevede delle regole ben precise. Quali sono gli aspetti che andrebbero coltivati nelle nuove generazioni, per fare in modo che diventi un’esperienza sociale e personale edificante?

«Lo sport è gioco se non è un assoluto. Lo sport è gioco quando è divertimento. Quando al divertimento si sostituisce la necessità di vincere a tutti i costi, perché sono in campo troppo denaro, troppi interessi, allora al divertimento e al gioco si sostituisce la possibilità delle regole “drogate”, addirittura della droga in quanto tale. Succede allora che non ci si diverte più, si rischia di distruggere la propria vita, quella degli altri e la bellezza stessa dello sport».

 

Come può essere tradotta a livello pastorale l’attenzione alla dimensione sportiva dei ragazzi?

«Più che attenzione alla dimensione sportiva, direi che bisogna avere attenzione agli sportivi. Non dobbiamo mai dimenticare che, se ha un senso parlare di pastorale, questo senso è occuparsi delle persone, arrivare alle persone.

Occorre allora creare dei luoghi in cui i ragazzi possano ritrovarsi, possano essere educati a vivere assieme, a conoscersi, a rispettarsi, ad accogliersi per poter giocare e lavorare assieme, per poter raggiungere assieme degli obiettivi. In questo modo, imparando lo sport, imparano la vita».

 

Parliamo dello sport di squadra. Possiamo trovare un risvolto cristiano in una attività che vede due squadre contrapposte e spesso, come nel calcio, una rivalità a livelli altissimi, che convive anche con interessi economici?

«La rivalità, entro certe dimensioni, fa parte della realtà stessa della vita. Possiamo dire, in un modo migliore, che esiste e va riconosciuta l’alterità. Noi comprendiamo noi stessi in presenza di altri, comprendiamo di avere doni che altri non hanno, comprendiamo che altri hanno possibilità che a noi non sono state date; allora nasce il desiderio dell’integrazione. Perché questo sia possibile, occorre una grande umiltà e un grande desiderio di raggiungere assieme uno scopo. È lo scopo che indirizza la vita e allora diventa possibile anche l’integrazione reciproca, la collaborazione dei doni, un progetto comune».

 

Lei è stato cappellano di una delle squadre più forti della Serie A di calcio. Come è possibile portare l’attenzione sulla dimensione spirituale in una realtà che sembra interessata a tutt’altro?

«Il mio compito era di celebrare la Messa il sabato pomeriggio. Vi partecipavano allora, negli anni del Milan di Sacchi, molti giocatori, oltre allo stesso allenatore. Era un momento da loro considerato importante. A partire dal mio essere lì a presiedere la celebrazione liturgica, nascevano poi rapporti di dialogo, con taluni pure di amicizia molto stretta. Amicizia che si estendeva anche a coloro che non partecipavano alla Messa. Fu per me un’occasione privilegiata di conoscere e comprendere il mondo del calcio. Ho capito, tra l’altro, che in qualsiasi ambiente ci troviamo sempre di fronte a persone e ogni persona porta in sé delle domande religiose».

 

Allenamento e disciplina sono due aspetti costitutivi della routine dello sportivo. Lo stesso San Paolo fa riferimento alla fatica, all’impegno e all’abnegazione necessaria per raggiungere il traguardo, metafora della méta finale cui deve guardare ogni uomo. In che modo gli sportivi vanno accompagnati nella loro formazione?

«Questo è uno degli aspetti più sorprendenti dello sport agonistico: la necessità di un allenamento continuo, che in taluni casi può durare anni e occupare anche tutti i giorni della settimana, tutte le settimane dell’anno. Ho incontrato grandi campioni che si allenavano dall’età di 10-11 anni tutti i giorni, fino a raggiungere risultati all’età di 25-30 anni. Penso alla scherma, alla spada, ai campioni del nuoto. Solo una grande tensione interiore, un grande desiderio di emergere, anche di far parlare di sé, può reggere un tale impegno. Un amore alla propria disciplina. Gli sportivi vanno accompagnati e sostenuti a vedere quanto possa essere bello anche il sacrificio in vista di un obiettivo; ma vanno anche accompagnati a sapere integrare, per quanto possibile, queste ore di allenamento con gli affetti, con altri interessi. Se si vive solo di allenamenti alla fine si può cadere tragicamente quando i risultati vengono meno. Occorre che l’uomo non sia mai “a una dimensione” perché altrimenti la sconfitta, questa volta non nello sport, ma nella vita, è dietro l’angolo».

 

L’importanza del gioco di squadra. Spesso per vincere occorre essere alleati anche con chi ha un altro stile, strategia, o gioca in un altro ruolo. È un’esperienza che possiamo fare nostra, anche per combattere la “buona battaglia”?

«Lo sport, soprattutto quello di squadra, è una metafora della vita e anche della vita cristiana. San Paolo l’ha usata più volte. Si tratta di accogliere l’altro per i suoi doni e sapere mettere a frutto i doni in un concerto reciproco in cui ciascuno, come uno strumento diverso, suona per far echeggiare un’unica melodia».

 

Con lo sport si fa anche esperienza della vittoria e della sconfitta, quasi un paradigma della nostra vita. Si dice: «l’importante è partecipare». Ma è davvero così? Che cosa conta davvero quando ci si mette in gioco?

«Penso che occorra partecipare per il desiderio di vincere; senza questo è difficile che abbia serietà anche il partecipare. Nello stesso tempo lo sport ci educa alla gioia misurata nella vittoria, sapendo che essa non è tutto, che è da godere in quel momento, ma che la vita è più ampia e, nello stesso tempo, a non deprimerci eccessivamente nella sconfitta proprio perché la vita può riservarci altre possibilità».

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