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13.12.2024

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Il vero amore è possibile
3 Giugno 2014

Il vero amore è possibile

Siamo sempre alla ricerca del nostro vantaggio? O siamo capaci anche di amare realmente? L’altruismo autentico è possibile oppure “homo homini lupus”? A dispetto di Hobbes, Bentham e Freud, ecco alcuni spunti per argomentare la tesi aristotelica e cristiana

 

 

 

Secondo Thomas Hobbes (1588-1679) e molti suoi continuatori (almeno su questo aspetto), l’uomo è un essere irrimediabilmente egoista: cioè cerca necessariamente sempre (e non solo qualche volta o molte volte) e soltanto il suo personale vantaggio.

 

Hobbes e l’uomo egoista

Perciò l’uomo è assolutamente incapace di volere il bene dell’altro in quanto altro, è incapace di altruismo e di vero amore. Quando cerca il bene dell’altro, lo fa sempre e soltanto per un tornaconto personale, cioè è solo apparentemente altruista. Così, per esempio, una mamma che si alza di notte (per l’ennesima volta) perché il figlio piange, lo fa perché, nel complesso, il rapporto col figlio è per lei fonte di gratificazione, anche se in quel momento alzarsi è estremamente faticoso; e (in quest’ottica) Madre Teresa di Calcutta si è sì dedicata ai poveri, ai derelitti e ai lebbrosi, ma lo ha fatto per egoismo, per guadagnarsi la vita eterna.

Perciò, per Hobbes, quando scarseggiano i beni che l’uomo desidera, quando c’è una loro penuria, si scatena la guerra civile e, allora, «homo homini lupus», l’uomo è per l’uomo un lupo, gli uomini sono sempre pronti a sbranarsi. È questa la celeberrima affermazione hobbesiana, espres- sa nella prefazione al suo De Cive (peraltro si tratta di una tesi spesso malcompresa; ma manca qui lo spazio per spiegare il diffusissimo fraintendimento).

Similmente, secondo Jeremy Bentham (1748-1832), «la natura ha posto il genere umano sotto il dominio di due supremi padroni: il dolore e il piacere. […] Dolore e piacere ci dominano in tutto ciò che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo» (lo dice l’incipit della sua Introduzione ai principi della morale e della legislazione). In altri termini, cioè, con ogni sua azione (e non con alcune o con molte) l’uomo ricerca sempre e comunque come obiettivo principale e primario il conseguimento del proprio piacere.

Tuttalpiù, per Freud (1856-1939), la vita di chi si dedica al prossimo è un ripiego, un surrogato al ribasso. Per esempio, nell’interpretazione freudiana, san Francesco d’Assisi, non avendo potuto soddisfare la sua “libido”, si è comportato come la volpe che disprezza l’uva: ha disprezzato ciò che non era in grado di conseguire e ha investito le sue energie nel servizio del prossimo (è un esempio per spiegare ciò che Freud chiama il “meccanismo della sublimazione”).

 

Aristotele e il cristianesimo: la naturale socievolezza

Era ben diversa la tesi di Aristotele, di Tommaso d’Aquino e dell’antropologia cristiana in genere. Era la tesi della socievolezza umana, tesi secondo cui l’uomo è capace di trascendere il proprio vantaggio, per indirizzarsi verso quello dell’altro in quanto altro.

Sia chiaro, la tesi della naturale socievolezza non nega ingenuamente l’esistenza di rapporti umani strategici, utilitari o conflittuali, su cui tanto si è concentrata la filosofia moderna. Sarebbe da ingenui negare la malvagità umana, la crudeltà, la ferocia, l’orrore. Aristotele aveva vissuto e subito l’esperienza della guerra civile, della lotta tra le fazioni politiche, conosceva bene la vicenda vergognosa della condanna a morte di Socrate, ecc., ed era ben consapevole (cfr. Politica, I, 2, 1253a 31-35 ed Etica Nicomachea, 1150a 9) che l’uomo può essere peggio di tutti gli animali, che è pericolosissimo in forza della sua arma peculiare, cioè la ragione, che è più malvagio di qualsiasi animale, anzi che è l’unico malvagio, visto che la malvagità richiede, per esser tale, la libertà e solo l’uomo è libero (un animale, una pianta, ecc. non sono liberi: dunque tutto ciò che provocano – anche l’uccisione di un uomo – non può essere definito malvagio, perché non è frutto di una libera scelta).

Anche Tommaso sapeva bene che «l’uomo, a differenza degli altri animali, ha le armi della ragione per soddisfare la sua concupiscenza e la sua crudeltà» (Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 1).

La tesi della naturale socievolezza nega solo che tra gli esseri umani il rapporto strategico, utilitario e conflittuale sia ineludibile. Esso, piuttosto, è una scelta e una degenerazione: in certi casi è vero che homo homini lupus, ma, di per sé, «homo homini naturaliter amicus » (Summa Theologiae, II-II, q. 114, a. 1, ad 2), l’uomo è per natura capace di essere amico degli altri uomini.

 

In difesa dell’altruismo

Ora, chi ha ragione? È vero che noi siamo sempre necessariamente alla ricerca del nostro vantaggio? Oppure siamo anche capaci di vero amore, di vero altruismo?

In realtà, ognuno può giudicare, dal punto di vista della propria persona, facendo un’autointrospezione, se è vero che egli compie sempre (e non solo qualche volta o spesso) le sue azioni in vista del proprio vantaggio. Ma, oltre a ciò, consideriamo alcune azioni. Per esempio, secondo Aristotele (Etica Nicomachea, 1155a 22) e Tommaso la benevolenza e la naturale socievolezza si mostrano incisivamente negli atti verso gli sconosciuti e gli stranieri: «Per tutti gli uomini è naturale amarsi a vicenda. E ne abbiamo un segno nel fatto che per istinto naturale l’uomo è portato a soccorrere qualsiasi altro uomo, anche sconosciuto, che si trovi in necessità: richiamandolo, per esempio, da una strada sbagliata, risollevandolo da una caduta, e così via, come se ogni uomo fosse per natura familiare ed amico di ogni altro uomo» (Tommaso, Summa contra Gentiles, III, C. 117).

Ma su questo esempio c’è chi ribatte che noi diamo aiuto anche a chi probabilmente non rivedremo mai più per provare la soddisfazione del senso di superiorità, la soddisfazione provata da chi aiuta nei confronti di chi è aiutato.

Aristotele menziona inoltre la scelta di chi è disposto a morire per gli amici e per la patria. Quale vantaggio personale può venire da un’azione simile? Hobbes dice che gli uomini sono mossi dal desiderio di una fama postuma. Ma quale fama e quindi quale vantaggio possono mai pensare di ottenere coloro che danno la loro vita per gli altri e il cui gesto, per quanto ne possono sapere, resterà ignoto?

Qualcuno potrebbe ancora replicare: chi dà la vita per gli altri lo fa per guadagnarsi la vita eterna promessa dalle religioni. In realtà, ciò è vero a volte, ma non sempre.

Ma anche qualora ciò fosse vero per tutti i credenti (e non lo è per nulla), resta il fatto che anche alcuni atei, cioè coloro che non si aspettano alcun premio nell’aldilà, danno la loro vita per gli altri, talvolta ritenendo che nessuno lo verrà a sapere e dunque pensando che nessuno li onorerà: dunque non lo fanno certo per ragioni egoistiche.

Si può ribattere: lo fanno per provare il senso di soddisfazione, di gratificazione di chi sta per fare/sta facendo qualcosa di grande. Ma è ben difficile, se non impossibile, che qualcuno accetti di soffrire dolori atroci per provare tale gratificazione. Per esempio dolori atroci come quelli di chi, nel tentativo di salvare un compagno, sa di poter essere infilzato o di morire dissanguato da una pallottola.

Inoltre, pensiamo a una fase concitata di una battaglia. Durante questa fase un soldato che si butta nella mischia per salvare qualcuno non lo fa per provare gratificazione (non ha nemmeno il tempo di pensarci), bensì solo perché vede un compagno in pericolo.

C’è poi un altro argomento (un po’ più complicato) proposto da Stefano Zamagni: chi agisce sempre in modo autointeressato e simula di essere disinteressato, attribuisce agli altri questo medesimo modo di agire e non crede nell’esistenza dell’altruismo. Ma, allora, può invece credere all’esistenza dell’altruismo e può essere ingannato dal falso altruismo degli altri solo un soggetto che agisce, o ha agito (almeno una volta in vita sua) in modo disinteressato.

Dunque, visto che esistono persone che credono nel disinteresse altrui, vuol dire che queste persone qualche volta sono (o sono state) disinteressate.

Per ingannare gli altri e per far credere loro che le mie azioni sono disinteressate (quando in realtà sono autointeressate ed egoistiche) bisogna che gli altri abbiano esercitato il disinteresse e che per questo pensino che io stia agendo altruisticamente. Chi non ha mai esercitato atti davvero disinteressati non suppone che gli altri lo stiano facendo, chi non agisce mai altruisticamente nega la possibilità dell’altruismo, e, proprio per questo, non presume mai che l’altro possa agire altruisticamente, bensì è sempre sospettoso, scettico e disincantato; viceversa, se uno si fa ingannare dall’apparente altruismo dell’altro è perché egli, almeno alcune volte, agisce, o ha agito in passato, in modo realmente altruistico.

Poi, certo, la frequenza di atti umani di vero amore dipende dall’autocoltivazione virtuosa o viziosa condotta da ciascuno su di sé. Ma questo è un altro discorso…

 

 

 

 

 

Ricorda

 

«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici».

(Gv 15,12-13).

 

 

 

 

 

Per saperne di più…

 

Giacomo Samek Lodovici, L’utilità del bene. Jeremy Bentham, l’utilitarismo e il consequenzialismo, Vita e Pensiero, 2010, pp. 251- 266.

Martin Rhonheimer, La filosofia politica di Thomas Hobbes. Coerenza e contraddizione di un paradigma, Armando, 1997.

Gabriel Chalmeta, La giustizia politica in Tommaso d’Aquino. Un’interpretazione di bene comune politico, Armando, 2000.

Stefano Zamagni, L’economia delle relazioni umane: verso il superamento dell’individualismo assiologico, in Pierluigi Sacco – Stefano Zamagni (a cura di), Complessità relazionale e comportamento economico, Il Mulino, 2002, pp. 67-128.

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