“Cia” in affanno
Per stare in tema: ecco un altro caso, stavolta contemporaneo: quello delle reti di spionaggio e di controspionaggio. La maggiore è ovviamente quella americana, la celeberrima Central Intelligence Agency, la CIA, quella che ha il cattivo gusto di esibire all’ingresso della sua enorme sede, in Virginia, parole evangeliche: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Blasfeme o no, sta di fatto che simili parole non corrispondono ai fatti. In effetti, la CIA è celeberrima non perché faccia conoscere la verità al governo che la finanzia ma, al contrario, perché la sua capacità di non prevedere gli eventi è proverbiale. Limitandoci a questi anni, quei costosi superesperti non ebbero alcun sentore del collasso mondiale del comunismo, né dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam, né del devastante attacco islamico ai grattacieli di New York, un fatale 11 settembre.
Per spingerci un po’ più indietro, è ancora fonte di sorrisi ironici il bilancio di previsione stilato dalla Agenzia alla fine del 1967 per l’anno successivo: si annunciava che il 1968 sarebbe stato un anno tranquillo e operoso, soprattutto nelle università non solo americane ma dell’intero Occidente. Di fronte ai clamorosi scacchi, sempre ripetuti, i governi americani continuano ad aumentare i già ricchissimi stanziamenti e l’Agenzia insegue un continuo aggiornamento tecnologico, al limite della fantascienza, e un allargamento inesausto delle fonti di informazione. Ma proprio questo è il problema: il proposito prometeico di controllare tutto porta, se messo in pratica, al controllo di nulla. Le informazioni che affluiscono al Centro, superata una certa misura, non sono più gestibili: nessuno è in grado di vagliarle, controllarle, coordinarle, trarne indizi attendibili e previsioni. Inutile aumentare il già sovrabbondante personale: l’esperienza insegna che così la confusione e la nebbia sul futuro anche prossimo aumentano. Insomma, la meditazione del cristiano potrebbe avere conferma, qui pure, che la sfida all’onniscienza di Dio porta, come risultato, alla confusione e all’ignoranza degli uomini.
Se una gatta fa pensare a Dio…
A proposito di Dio. Spero di non sembrare irriverente, confidando che penso a Lui anche osservando la gatta che da anni è con noi e che amiamo, ovviamente riamati, come gatti e cani sanno fare così bene. Come se consultasse un calendario, tra gli ultimi giorni di febbraio e i primi di marzo, anche se la temperatura è ancora rigida e magari cade un piovasco misto a nevischio, Micetta (così la chiamiamo, semplicemente) sa che deve prepararsi alla primavera che si avvicina. Dunque, se la porta verso il giardino è chiusa e non siamo subito pronti per aprirla, provvede lei ad ore fisse, comunque sempre al mattino, a saltare dal balcone al piano rialzato nel giardinetto. Qui passa molto tempo nel prato ad annusare, selezionare, assaggiare e infine masticare con impegno fili di un’erba – sempre e solo quella – che lei solo sa riconoscere. Oltre al nome, un veterinario potrebbe dire gli effetti di quell’erba: lassativo, depurativo. Un rimedio, un farmaco, dunque, per depurarsi dai veleni del lungo inverno e affrontare in piene forze la bella stagione.
Davanti a questo caso (come ad infiniti altri del mondo animale, e non solo) sono più che mai ridicole, anzi grottesche, le solite parole recitate come un mantra per rassicurarsi, illudendosi che l’assurdità sia la verità: «caso, necessità, evoluzione, istinto » e così via. Né, oltretutto, si può ripiegare sull’insegnamento datole dalla madre (a parte il fatto che l’enigma si sposterebbe soltanto, restando comunque senza risposta), non si può perché, lo sappiamo di certo, la nostra gattina è stata abbandonata subito dopo essere stata partorita, senza il periodo usuale di apprendimento “familiare”. Inutile cercare alibi per rendere ragionevoli materialismi e ateismi: si avverte come una Mano invisibile ma infallibile che sospinge Micetta sul prato proprio quando i giorni sono quelli giusti e la guida a scegliere, facendole strappare e masticare proprio quell’erba di cui per il suo benessere ha bisogno. A noi, noi della specie dell’homo sapiens, sono occorsi secoli di chimica per stabilire come e perché e quando quell’erba sia giovevole, mentre una qualunque gatta trovatella già lo sapeva da sempre e da subito, semplicemente nascendo.
Spiriti “forti”
Parlando di atei ed agnostici: i francesi li chiamavano, talvolta li chiamano ancora: ésprits forts, spiriti forti, dando per scontato che ci voglia una grande forza intellettuale per rigettare la religione. È giustificata, però, la battuta di Jean Guitton, il grande filosofo cattolico: «Parlo per esperienza, dopo avere esaminato con rispetto e attenzione le loro opere. Gli spiriti forti hanno qualcosa in comune: hanno sempre delle ragioni deboli».
Cristiano e… libero
Tutti conoscono la Chevrolet, l’auto con maggior vendita del gruppo General Motors, uno dei più grandi produttori di autoveicoli del mondo. Il marchio della Chevrolet è una croce, con il braccio orizzontale più lungo. Pare certo che quello stemma derivi dalla croce della bandiera svizzera, in cui era nato il fondatore, Louis Chevrolet. Ma, per una sorta di rispetto umano, l’azienda da molto tempo nega che questa sia l’origine e afferma che è il disegno stilizzato di un papillon, di un farfallino, cioè ciò che si portava e talvolta oggi si porta come alternativa alla cravatta.
Ma è una spiegazione che non convince il mondo musulmano, a tal punto che nei Paesi islamici è partito un boicottaggio: si consiglia ai credenti nel Corano di non girare con un auto con la croce sul cofano se non si vuole incorrere in grossi guai. La Chevrolet, danneggiata fortemente nelle vendite, ha reagito denunciando un equivoco, rilanciando alla grande la faccenda del farfallino. Non si esclude che decida di cambiare marchio, dopo averlo utilizzato per oltre un secolo.
Sono cose, queste, che indignano alcuni. A me, invece, danno una sorta di allegria. L’allegria di riscoprire ogni volta quanto sia bello essere cristiani, con la libertà che ne deriva. La libertà di mangiare e bere tutto ciò che mi aggrada, a cominciare da un panino col salame accompagnandolo con un bicchier di vino; la libertà di non dovere digiunare a comando per un mese intero (rimpinzandomi però – vertice del formalismo – al calar del sole); la libertà di non dover battere la fronte a terra cinque volte al giorno per salmeggiare preghiere in una lingua antica e ormai incomprensibile alla stragrande maggioranza dei devoti; la libertà di non affrontare un lungo pellegrinaggio nel deserto come condizione per la salvezza; la libertà di fare elemosina a chiunque sia bisognoso, senza chiedermi se sia o no musulmano egli pure. E la libertà, infine, di comprarmi l’auto che mi pare, anche se, per caso, avesse sul cofano la mezzaluna islamica.
Quel “no” odora di zolfo
Non è possibile, oggi, progettare un’opera pubblica senza che nasca, immediatamente, un “comitato del no” per contrastarla, spesso per il solo gusto di mettersi di traverso, di contestare qualunque iniziativa. Si pensi, visto che ormai da anni riempie le cronache, a quel violento fenomeno che da anni mette a ferro e a fuoco la Val di Susa, che, significativamente, chiama se stesso NO-TAV ed è stato creato ed animato (a colpi anche di spranghe e di bombe) da sedicenti “ambientalisti”. I quali contraddicono platealmente se stessi, visto che dicono di detestare le auto e invocano ovunque rotaie al posto di autostrade e al contempo reagiscono con violenza contro una ferrovia che toglierebbe migliaia di camion lungo la direttrice fondamentale tra Italia e Francia. Ciò che conta non è, per loro, la coerenza ma il rifiuto, il gusto di negare. Nascono interi partiti e partitini che si vantano di avere come primo obiettivo politico quello di “dire no”, a tutto. Che cos’è, per stare all’ultimo esempio, quel Movimento 5 Stelle che ha raccolto addirittura un quarto dei voti e che si è rinchiuso in un “No” radicale e universale, sino ad espellere chi, tra i suoi eletti, approvi una qualunque cosa, accenni a un possibile accordo? Nella ideologia oggi egemone, l’opposizione, il rifiuto, la negazione, sono considerati nobili, coraggiosi, da imitare.
È inquietante. Penso al Faust di Goethe, a questa immagine del diabolico, che così si presenta: «Io sono colui che sempre nega». Il dire “no”, a priori, è tra le caratteristiche sataniche anche nella prospettiva di quel cristianesimo che si basa su un “Sì” iniziale: quello di Maria alla domanda dell’Arcangelo, nel momento dell’annunciazione. Ma, per andare agli inizi, credere non è forse riconoscere che Dio ha detto un “Sì”, definitivo e radicale, all’uomo, malgrado la sua colpa e il suo peccato? E non è un “Sì” che il Creatore attende da ogni sua creatura?
Alla larga dunque dai “Bastian contrari” ad oltranza: attorno a loro mi sembra sia innegabile l’odore di zolfo.
L’uomo del “sì”
Belle queste parole di quell’uomo del “Sì” che fu l’amabile Francesco di Sales, il santo così caro a quell’altro uomo dell’assenso e dell’apertura che fu san Giovanni Bosco che prese da lui il nome per i suoi Salesiani: «Non parlare di Dio a chi non te lo chiede. Ma vivi in modo tale che, prima o poi, te lo chieda».
Segni spontanei
Tempo fa, fui criticato da certi ambienti cattolici per essermi detto perplesso sull’opportunità di una campagna di stampa per salvaguardare un vecchio decreto (risale all’età fascista) che impone di esporre un crocifisso nei luoghi pubblici, almeno quelli statali. Dalle scuole alle aule di tribunale, sino alle stanze dei commissariati di polizia e delle stazioni dei carabinieri. Mi sembrava, e mi sembra, che certa “religione” imposta per legge, almeno nei simboli, rischi – soprattutto oggi – di ottenere l’effetto opposto: adesione in alcuni ma rifiuto o rivolta in altri.
Non sto qui a riprendere il tema, ricordando soltanto (come ho fatto già molte volte) che mi riconosco un carisma, quello della fallibilità. Quindi la mia, più che una convinzione inflessibile, era, ed è, semmai un’opinione, una proposta sulla quale confrontarsi. In effetti, delusi molto quell’apostolo di laicismo e di agnosticismo che è il giornalista e scrittore Corrado Augias. Il quale, tra l’altro, è assai meno laico di quanto non voglia far credere, avendo fatto tutte le classi, dalla prima elementare alla maturità, come allievo esemplare dei Padri Maristi di Roma. Quasi alla pari, cioè, di quell’apostolo di un ateismo da farmacista ottocentesco che è Piergiorgio Odifreddi, che si proclama “laicissimo” e che si è formato, invece, nel seminario di Cuneo. Augias, dunque, letto quanto dicevo – si trattava di una intervista – sulla croce obbligatoria per legge mi convocò subito a una trasmissione televisiva che conduceva. Ma, come dicevo, restò deluso quando spiegai che cosa davvero volevo dire e che non era certo tale da potergli fare esclamare, come sperava: «Vedete? Anche quel cattolico esplicito, quel papista di Messori è d’accordo con noi difensori della laicità!».
Lasciamo stare, dunque, i decreti di un Mussolini che, dopo il Concordato, cercava di rinsaldare sempre più i legami del regime con la Chiesa istituzionale. Diciamo piuttosto che, per stare ai “segni” della fede, non ho invece dubbi sull’importanza di quelli spontanei, nati liberamente dal popolo e che contrassegnano, senza eccezioni, tutto il territorio italiano. Parlo di ciò che chiamano edicole, santelle, piloncini, aggiungendovi le “madonnelle” (per dirla come a Roma), cioè quegli affreschi a carattere sacro, non necessariamente mariano ma dedicati spesso a qualche santo, sulla facciata delle case e delle cascine. L’Italia ha qui un provvidenziale vantaggio rispetto, soprattutto, alla Francia, dove i rivoluzionari di fine Settecento, per attuare i loro decreti di “decristianizzazione”, non distrussero soltanto chiese, cattedrali, conventi. Si ignora spesso che vi fu un piano ben studiato per cancellare ogni traccia di fede nel Paese cambiando i nomi di città, paesi, piazze, vie che richiamassero la tradizione cristiana. Ma a questo si aggiunse la distruzione sistematica di quelle edicole e di quegli affreschi popolari che dicevo. Il vandalismo programmato fu tale che neppure nelle campagne francesi più remote vi è oggi qualche immagine sacra esposta sulle strade che risalga all’epoca prerivoluzionaria. Altrettanto dicasi della Spagna, dove a far tabula rasa pensarono i comunisti, i socialisti, gli anarchici della Guerra Civile, mentre in buona parte della Germania e in tutta l’Inghilterra provvidero protestanti e anglicani. In Italia (a parte qualche zona occupata dalle armate napoleoniche), la rovina di buona parte di questo grande patrimonio di cultura popolare è venuta solo dall’incuria o dalla edilizia per far posto a case o dalla costruzione di strade per le quali ogni piloncino era un ostacolo da far atterrare.
Per me – apprezzando le piccole cose concrete e diffidando dei grandi progetti – vi sarebbe qui un impegno che la comunità cattolica potrebbe, anzi dovrebbe, assumersi. Non si tratta tanto di salvare quanto rimasto di un patrimonio artistico (le immagini di edicole e madonnelle sono quasi sempre di dilettanti, commoventi nella loro ingenuità), si tratta semmai di un’opera di testimonianza cristiana, preservando le tracce della lunga storia di devozione davvero popolare, visto che qui non intervennero grandi mecenati, principi, cardinali o vescovi e, spesso, neppure curati e parroci. Fu davvero il piccolo, anonimo popolo di Dio che a sue spese e, spesso, con le sue stesse mani, di sua iniziativa, volle lasciare una testimonianza di devozione.
So che già in alcune zone d’Italia qualcosa si è fatto, ma non sarebbe male che almeno in qualche diocesi si procedesse a un inventario e che le parrocchie si mobilitassero: so per esperienza che i credenti sono pronti a dare e a lavorare se si propone un impegno concreto. Qui, tra l’altro, si tratta di salvare e, se possibile, di ridare vita a ciò che testimonia non solo una fede astratta ma a ciò che porta testimonianza della devozione concreta dei nostri avi stessi.
IL TIMONE – Aprile 2014 pag. (64-66)
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