Credere nella Risurrezione di Cristo è un atto di fede. Ma non di una fede cieca. Perché i vangeli, che ce la raccontano, sono anche testi storicamente fondati e credibili
La Resurrezione di Gesù è l’evento che fonda il cristianesimo. Senza la Resurrezione dal sepolcro avvenuta il terzo giorno, senza le apparizioni ai dodici e ad altri discepoli nei giorni successivi, la vicenda terrena di Cristo rimarrebbe soltanto una straordinaria avventura umana.
È evidente che all’evento su cui sta o cade il cristianesimo si crede per fede. Ma la Resurrezione, essendo un fatto accaduto in un determinato momento del tempo, duemila anni fa in Palestina, ha lasciato dietro di sé degli indizi di storicità. Possiamo dunque chiederci quale credibilità abbiano i brani evangelici che ce la raccontano. «Gli stessi documenti, le stesse testimonianze storiche che hanno narrato i fatti di Gesù non si fermano alla sua morte», ha scritto l’abate Giuseppe Ricciotti, autore di un’insuperata vita di Gesù, «ma con la stessa autorevolezza e col medesimo grado d’informazione di prima proseguono a narrare una resurrezione e una seconda vita di lui».
Non esiste, insomma, una discontinuità di testimonianze tra i vangeli che narrano la vita terrena di Cristo e gli stessi vangeli che ne annunciano la resurrezione. Dunque la negazione dei miracoli raccontati nella prima parte e soprattutto dell’evento fondante la fede cristiana, descritto nella seconda parte, deve avvenire non in ragione di una incoerenza dei testi, di una loro mancanza di logica, dell’assenza di appigli storici. Non si dà alcun credito a quei racconti solo perché non si ammette l’esistenza del soprannaturale.
Jacques Perret, docente di Storia romana alla Sorbona di Parigi, nel 1984, a fine carriera decise di usare la sua esperienza di storico per esaminare i racconti evangelici delle apparizioni di Gesù risorto: «Quando ci si rifiuta di credere alla risurrezione di Gesù, non è per motivi storici. La storia, per quanto ne è capace, non solo non contraddice, ma porta a giudicare come più probabile tra tutte le ipotesi che gli evangelisti riferiscano con sostanziale verità ciò che davvero è successo». Perret critica il metodo attraverso cui molta esegesi moderna tende a ridimensionare o a rifiutare la testimonianza degli evangelisti sulla resurrezione di Gesù. E cerca di rispondere ad alcune delle obiezioni mosse a quei racconti.
Ad esempio a quella secondo la quale, siccome la resurrezione non ha avuto testimoni, essa non appartiene alle realtà sulle quali la storia possa dire qualcosa. In effetti, nessuno degli evangelisti descrive il momento della resurrezione, che invece viene narrato dagli apocrifi. Eppure, l’assenza di testimonianze su quel preciso momento non è un ostacolo al riconoscerla realmente avvenuta: «Sono innumerevoli gli avvenimenti », scrive Perret «nei quali il grado di verosimiglianza non dipende affatto dalla presenza o dall’assenza di testimoni immediati… Supponiamo che uno degli ebrei che hanno assistito alla morte e ai funerali di Lazzaro, e pianto poi tre o quattro giorni presso la sua tomba sigillata, lo incontri più tardi, ben vivo, per la strada. Forse che costui non sarà forzato a credere che, nel frattempo, Lazzaro è stato riportato alla vita? Ignora, certo, il giorno e l’ora, le circostanze; magari non le conoscerà mai esattamente, ma non per questo sarà meno certo di quella risurrezione. Vi crederà come se vi avesse assistito egli stesso».
«Quando lo storico riprende in mano il vangelo », osserva ancora il cattedratico francese «gli sembra che ciò che svanisce come fumo non sia quel vecchio testo, ma l’illusione di chi voleva farne un tessuto di simboli. Riscopre ogni volta che, malgrado tutto, il vangelo, storicamente regge bene: non è scritto affatto come un mito platonico. D’accordo, l’evento della resurrezione non ha avuto testimoni, ma i discepoli hanno ben creduto di poterlo affermare a partire da altri eventi che cadevano direttamente sotto i loro sensi. Ce li hanno descritti esattamente, come hanno potuto».
Un’altra obiezione spesso rivolta alla credibilità delle testimonianze della resurrezione riguarda il coinvolgimento personale dei discepoli nella vicenda. «Possibile che questi biblisti», scrive Perret «ignorino che sarebbe impossibile scrivere qualunque storia (anzi che non esisterebbe la storia stessa) se si dovessero ricusare tutti gli autori sospetti di essere coinvolti nei fatti narrati?».
Per lo storico della Sorbona, uno degli elementi da considerare è il fatto che quell’annuncio pasquale venne scritto poco tempo dopo i fatti, quando i testimoni erano ancora in vita. Non dimentichiamo, qui, l’accenno all’incontro di Gesù risorto con quei «cinquecento fratelli », molti dei quali sono ancora vivi quando Paolo scrive la prima lettera ai Corinzi. Scrive ancora Perret: «Quando si immaginava che i testi del Nuovo Testamento non avessero preso forma definitiva che nel corso del secondo secolo… è ben vero che in questo grande vuoto che li separava dalla morte di Gesù (e durante il quale, fatalmente, tutti i testimoni erano scomparsi) molte metamorfosi avrebbero potuto prodursi e molte favole nascere. Oggi, la frattura, che si voleva dilatare tanto, è stata ristretta a qualche anno e in certi settori a qualche mese o addirittura a giorni. Non è cent’anni più tardi che i cristiani hanno annunciato in pubblico la risurrezione di Gesù (e a quanto pare con l’essenziale dei dettagli che leggiamo nei nostri testi), ma è meno di due mesi dopo il Venerdì Santo!».
Certo, lo si è detto molte volte: gli evangelisti non erano storici e non intendevano scrivere un libro di storia. Ma siamo davvero sicuri di questo? Se, come abbiamo visto, il cristianesimo è l’annuncio di un fatto, di un evento, l’incarnazione, la morte e la resurrezione del Figlio di Dio, la «cronaca» della sua vita, di ciò che ha detto e che ha fatto, e soprattutto la dettagliata descrizione degli avvenimenti accaduti a Gerusalemme quella settimana di aprile dell’anno 30, costituiscono un elemento fondamentale, imprescindibile. Non si trattava di trasmettere una filosofia, un sistema di pensiero, delle massime utili per il buon vivere. Si trattava di raccontare vita, morte e miracoli (compreso il più grande miracolo, quello della Resurrezione) di Gesù. «Le manifestazioni di Gesù risorto, le sue apparizioni», scrive Jacques Perret, «non sono affatto presentate dal Nuovo Testamento come un frutto della fede, ma come dei fatti, che si svolgono nello spazio di ciò che si vede e che si tocca. Quelle manifestazioni sono percettibili a un incredulo (Paolo), che in seguito ad esse si converte; a degli increduli (i compagni di Paolo), che restano tali; a dei discepoli che non mettono neppure in conto la possibilità che sia risuscitato (la Maddalena, gli Undici); o che, a dispetto della testimonianza dei loro compagni, si rifiutano di credere ma crederanno in seguito (Tommaso); o che continueranno a non credere».
«Una tale diversità di reazioni», conclude lo storico della Sorbona «mostra bene che, a giudizio degli autori neotestamentari, queste manifestazioni non sono l’effetto di disposizioni interiori particolari ma, come ogni fenomeno di questo mondo, si impongono dal di fuori».
Che cosa dovremmo concludere, dunque? Che la resurrezione di Gesù è provata storicamente? Che è un dato scientifico e incontrovertibile? Ovviamente no. Credere che Gesù sia risorto è un atto di fede. Ma non si tratta di un atto di fede cieco, di un auto-convincimento da parte di persone religiosamente fissate. Era ben diversa la pasta umana di quei primi seguaci di Gesù. Loro, come noi, avevano bisogno di vedere e di toccare, avevano bisogno di segni tangibili, non di fumose e vane promesse o di nostalgici ricordi.
Insomma la semplicità dei primi testimoni, la paura delle donne, il primo dubbio della Maddalena, la corsa al sepolcro di Pietro e Giovanni che «vide e credette», l’incredulità di Tommaso soddisfatta dallo stesso Gesù, confermano che quello dei primi testimoni non è stato uno sforzo religioso, ma un arrendersi alla realtà, alle cose così come erano di fatto. Solo un evento reale, imprevisto e imprevedibile dopo il fallimento del Calvario, poteva vincere le umanissime obiezioni di quel gruppetto di ebrei prima impauriti e prostrati. E farne gli instancabili testimoni di un annuncio inaudito.
Lo storico deve ammettere di non essere in grado di spiegare come si sia prodotta in quel gruppuscolo di discepoli che avevano visto miseramente fallire, nel modo più infamante, le loro attese e le loro speranze, la fede pasquale, la fede nella resurrezione di Cristo. C’è un Big Bang all’origine del cristianesimo, senza il quale ciò che è accaduto dopo non ha spiegazione.
IL TIMONE N. 125 – ANNO XV – Luglio/Agosto 2013 – pag. 50 – 51
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