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12.12.2024

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La giustizia e la storia
31 Gennaio 2014

La giustizia e la storia


Le filosofie della storia dell’800 si sono sgretolate e oggi prevale il nichilismo. L’accadere ha senso e lo scandalo del male è eliminato solo se c’è un Fine ultraterreno. Ma già nella storia c’è una prima giusta (parziale) retribuzione

L’800 è stato il secolo delle colossali filosofie della storia (Hegel, Marx, Storicismo, Positivismo) che affermavano la totale storicizzazione dell’esistenza e dell’uomo (cioè affermavano che la storia è la totalità dell’essere, che non c’è nulla di ulteriore alla storia, nulla di ultraterreno). La storia era pensata come un incessante progresso e come una progressiva liberazione dal male, oppure come manifestazione della necessità di ogni evento, quindi come inderogabilità di un accadere che esclude a priori la possibilità stessa del male.

Cripto-teologia
Però, come ha scritto Karl Löewith in un suo classico lavoro, a ben vedere, queste grandiose elaborazioni riproducono uno schema teologico, precisamente cristiano: infatti, esse, come il cristianesimo (che pur ripudiano, in modo più o meno diretto), unificano gli eventi storici in rapporto ad un fine-telos, che però non è più il fine trascendente ultraterreno indicato dal cristianesimo, bensì un fine immanente alla storia: sono tutte versione secolarizzate della teologia cristiana della storia.

Il nichilismo e la fine della storia
In età contemporanea, invece, si assiste ad un tracollo di queste visioni ed insorge una filosofia della fine della possibilità della storia: nel nichilismo l’accadere è ritenuto privo di senso, che tutt’al più si dà per il singolo evento, ma senza che vi sia un senso unitario della totalità degli eventi.
Emblematico è il nichilismo di Nietzsche, per il quale l’esistere è privo di senso e non ha un fine. Per la precisione: non c’è nulla di immutabile (come, ad esempio, un ordine di valori morali, una legge morale naturale), non è possibile conoscere la verità, non c’è un ordine dell’essere (una gerarchia di valore tra gli enti), e tutto è trascinato vorticosamente in un perenne fluire senza fine e senza senso, in un divenire incessante. Secondo Nietzsche, noi esseri umani «abbiamo cercato in tutto l’accadere un “senso” che in esso non c’è. […] Quel [presunto] senso potrebbe essere stato [nelle diverse concezioni]: l’“adempimento” di un supremo canone morale in tutto l’accadere, l’ordine morale del mondo; o l’accrescimento dell’amore e dell’armonia nei rapporti fra gli esseri; o l’avvicinamento ad uno stato universale di felicità; o anche il dirigersi verso uno stato universale del nulla – una meta [come il nulla] è ancor sempre un senso».
Poi, con l’avvento del nichilismo, «si capisce che col divenire non si mira a nulla, non si raggiunge nulla»; «sotto ogni divenire non si ritrova per nulla una grande unità», cioè «non è lecito interpretare il carattere generale dell’esistenza né col concetto di “fine”, né col concetto di “unità”, né col concetto di “verità”», perciò, con l’avvento del nichilismo, «ora il mondo appare privo di valore». Ecco dunque l’essenza del «nichilismo: manca il fine; manca la risposta al “perché» (Nietzsche però, a ben vedere, forse non è del tutto nichilista: il fine per lui è sprigionare la volontà di potenza; ma il discorso sarebbe lungo…).

Il Cristianesimo dà senso alla storia
In altri termini, la disillusione sui vari e diversi fini della storia proposti dalle filosofie ottocentesche ha progressivamente provocato in seguito una sfiducia verso la pensabilità stessa della storia, e ciò è istruttivo: da un lato, mostra che la storia è pensabile solo sul presupposto di un fine-telos che unifichi tutti gli eventi, che li correli tra di loro, e di un telos che inoltre risolva lo scandalo del male che avviene nella storia: altrimenti la storia è assurda; dall’altro, mostra che tale Telos non può essere mondano-terreno, bensì escatologico-ultraterreno. Dunque, solo una prospettiva teologica è la condizione di possibilità per una solida pensabilità della storia.
Ma bisogna distinguere tra teologia e teologia: in realtà, mentre nel mondo antico l’accadere è considerato ciclico, e spesso è ritenuto sfavorevole (tanto che secondo alcuni bisogna estraniarsi dalla storia e ricollegarsi all’Origine), con la Rivelazione biblica, in parte già con l’ebraismo ma soprattutto col cristianesimo, il tempo diventa l’ambito del proprio impegno, della propria responsabilità e del proprio compimento.
L’annuncio cristiano parla di un inizio della storia, cioè la creazione, di un evento centrale, che è l’Incarnazione, e di una fine della storia, che è la ricapitolazione di ogni evento in Cristo, che tornerà alla fine della storia per giudicarla. Così, nello schema cristiano c’è un’economia della salvezza, ed hanno un senso – che tuttavia in gran parte ci sfugge! – persino gli oceani di male che i totalitarismi hanno prodotto.
E, per esempio per l’elaborazione teologico- filosofica del cristiano Agostino, è vero che gli uomini della città di Dio sono mescolati con i malvagi lungo il corso della storia e spesso soccombono. Ma lo scandalo dell’ingiustizia sarà sanato in dimensione escatologica alla fine della storia, dal giudizio del Signore della storia.

C’è una giustizia già nella storia?
A questo punto bisogna chiedersi: c’è una giustizia già nella storia?
Per Platone, Aristotele, Tommaso d’Aquino, Kant e per Hegel, la giustizia consiste (anche) nella retribuzione. Infatti, ciascun uomo vive con gli altri in un rapporto di uguaglianza, di reciprocità, di simmetria dei diritti, che viene cancellata dal malvagio. Perciò, come chi ha guadagnato un vantaggio ingiusto deve risarcirlo, come chi si è arricchito illecitamente deve restituire ciò che ha rubato e come una squadra sportiva che ha barato deve essere penalizzata, così il malvagio deve subire una pena afflittiva per scontare il male che ha compiuto. Afflittiva perché il reo ha prevaricato con la sua volontà e la sua libertà sulla volontà e la libertà dei suoi simili, perciò la pena deve affliggere la sua volontà e la sua libertà per riequilibrare il male che egli ha compiuto (Tommaso, Somma teologica, II-II, q. 108, a. 4).
E, parimenti, il giusto deve ricevere una compensazione.

La contentezza del bene
Ebbene, sia chiaro: la retribuzione completa del bene e del male commessi nella storia è solo escatologica, è solo metastorica.
Però, già nella storia c’è una prima, ancorché solo iniziale e solo parziale, retribuzione del bene: anche se i malvagi spesso prosperano, i giusti sperimentano, nella loro coscienza, la pace interiore e finanche la contentezza del bene.
Senza arrivare a sostenere l’assurdità dell’imperturbabilità del virtuoso anche sotto tortura, è interessante leggere che cosa riferisce la grande letteratura dei totalitarismi. Leggiamo per esempio V. Grossman (Vita e destino, Jaca Book, 1982, p. 694): «Noi […] tacevamo nel ’37, quando [in URSS] giustiziavano milioni di innocenti. E i migliori tacevano! E ci furono pure quelli che diedero la loro approvazione», ma, «se l’uomo trova in sé la forza di fare quello che gli detta la coscienza, allora prova un impeto di felicità ». E anche Solženicyn, in Arcipelago Gulag racconta appunto questo «impeto di felicità » sperimentato da coloro che, costretti a scegliere tra la vita e la coscienza, scelgono la coscienza. In particolare, sperimentano la contentezza del bene coloro che vivono per amore, perché tutto ciò che facciamo per amore ci costa meno o ci risulta addirittura gioioso (mi manca lo spazio per argomentare, perciò rimando al mio Vuoi essere felice?, «il Timone» 39 [2005], pp. 32-33). Pensiamo ai martiri, pensiamo per esempio alle famose espressioni di Ignazio di Antiochia (Ai Romani 6,1-3), pronunciate quasi sul punto di essere sbranato dai leoni. Sono parole che si possono umanamente comprendere solo pensando a un uomo “follemente” innamorato di Dio: «È bello per me morire verso Gesù Cristo, piuttosto che regnare sino ai confini della terra. Cerco lui, che è morto per noi, voglio lui, che è risorto per noi. È giunto per me il parto. Abbiate compassione di me, fratelli: non impedite il mio nascere alla vita […]. Lasciate che io sia imitatore della Passione del mio Dio».

Per saperne di più…

Francesco Botturi, Senso storico e storicità. L’aporia della fine della storia, in AA.VV., Di fronte alla storia, Editrice Ibis, 2002, pp. 31-69.
Karl Löewith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, il Saggiatore, 2009.

IL TIMONE N. 126 – ANNO XV – Settembre/Ottobre 2013 – pag. 30 – 31

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