Giovanni XXIII riuscì nell’ottobre 1962 a evitare la terza guerra mondiale con un forte messaggio rivolto alle grandi potenze, Stati Uniti e Unione sovietica. Pochi mesi dopo venne pubblicata la Pacem in terris
«Non si dà vera pace ai cittadini, ai popoli, alle nazioni se prima non si concede ai loro animi; poiché non ci può essere pace esteriore se essa non è l’immagine riflessa di quella interiore e se non è diretta da questa, senza la quale tutto vacilla e minaccia di cadere». Queste le riflessioni di Angelo Giuseppe Roncalli il 28 ottobre 1958, il giorno in cui viene eletto Papa, assumendo il nome di Giovanni XXIII. Una preoccupazione per la pace, quella del Pontefice bergamasco, prossimo santo, che l’ha accompagnato per tutta la vita. Il 10 agosto 1914, in occasione del decimo anniversario della sua ordinazione sacerdotale e a pochi giorni dallo scoppio del primo, sanguinoso conflitto mondiale, definisce «straziante » il «clamore di guerra che si leva da tutta l’Europa». Mentre l’11 dicembre 1942, da Atene, in piena seconda guerra mondiale, scriverà alla famiglia: «A misura che l’odio infuria, noi dobbiamo perfezionarci nella carità fino al sacrificio», mostrandosi così convinto che la pace nasce e cresce innanzitutto nei cuori. E aggiungendo: «Non vi ripeto quanto già ebbi occasione di dirvi: parlar poco di guerra e della colpa dell’uno o dell’altro, perché il peccato è di tutti, e tutti sono chiamati uno dopo l’altro a far penitenza».
Proprio il fatto di aver conosciuto da vicino e vissuto gli orrori di due conflitti mondiali spingerà Roncalli a scrivere la sua ultima e più celebre enciclica, la Pacem in Terris, pubblicata il Giovedì Santo del 1963, poche settimane prima della morte: la sua autentica eredità spirituale. Riprendendo una riflessione di trent’anni prima afferma che non c’è «pace vera… finché Dio è estraneo alle intenzioni degli uomini»; infatti la pace «può essere instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio». Ma Papa Giovanni non si è limitato a incitare, ammonire, scongiurare, invocare la pace: per ottenerla è anche intervenuto attivamente, non soltanto con la preghiera, non soltanto con l’offerta della sua vita, ma con tutti i mezzi diplomatici a sua disposizione. Ne rappresenta l’esempio più evidente il ruolo cruciale giocato dal Vaticano nel 1962 durante la drammatica crisi missilistica di Cuba, governata da tre anni dal fidato alleato dei russi Fidel Castro.
«Ascoltino il grido d’angoscia che sale verso il Cielo» «Mentre è appena iniziato il Concilio Ecumenico Vaticano II, tra la gioia e la speranza di tutti gli uomini di buona volontà, ecco che nubi minacciose vengono nuovamente ad oscurare l’orizzonte internazionale, seminando lo sgomento in milioni di famiglie. … Quanti hanno responsabilità di potere, con la mano sulla coscienza ascoltino il grido d’angoscia che, in ogni parte della terra, dai piccoli innocenti agli anziani, dai singoli individui alle comunità, sale verso il Cielo: Pace! Pace! Scongiuriamo tutti i Governanti a non rimanere insensibili a questo grido dell’umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace: così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra di cui nessuno può prevedere le spaventose conseguenze ». Questi sono alcuni dei passaggi più vibranti del fermo appello lanciato da Giovanni XXIII domenica 25 ottobre 1962, festa di Cristo Re, durante la cosiddetta “crisi dei missili” di Cuba, per allontanare il pericolo di una terza guerra mondiale. Il Papa è consapevole quanto la pace sia il bene «più importante e prezioso», quasi «un lembo di Paradiso sulla terra». Sono proprio le parole del futuro Beato che convinceranno americani e sovietici, guidati da Kennedy e Kruscev, in rotta di collisione e sull’orlo di un devastante conflitto nucleare, a fermarsi e a riprendere il dialogo (28 ottobre 1962). L’appello pontificio giunge al termine di una serie di febbrili contatti diplomatici, che vedono impegnati in prima persona uomini del più stretto entourage di Roncalli, come il sostituto alla Segreteria di Stato monsignor Angelo Dell’Acqua e il suo primo consigliere politico, monsignor Igino Cardinale, che si prodigano per riaprire canali tra le parti e sconfiggere il “partito della guerra”.
I mass media dell’epoca, condizionati da circoli politici e finanziari anglo-americani di matrice laica e massonica, non danno l’adeguato risalto al ruolo giocato nella drammatica vicenda dalla Santa Sede, ma la gente comune di tutte le latitudini comprende facilmente che proprio l’intervento del Pontefice riesce a evitare il peggio, inducendo i responsabili delle due grandi potenze a interrompere atti di guerra dalle conseguenze tragiche e irreversibili. Riescono a fermarsi sull’orlo del baratro: Mosca accetta di smantellare le proprie basi a Cuba in cambio dell’impegno di Washington a non invadere l’isola caraibica, rispettandone l’integrità. Nei giorni precedenti l’accorato appello di Giovanni XXIII, che darà l’avvio alla concreta ripresa dei negoziati, il mondo aveva vissuto con il fiato sospeso.
Quei missili destinati a colpire l’America
L’11 ottobre 1962, all’apertura dei lavori del Concilio (con il celebre “discorso della luna” pronunciato la sera da Giovanni XXIII e l’invito a «dare una carezza ai vostri bambini»), nulla lasciava presagire quello che sarebbe accaduto da lì a poco per offuscare la «gioia della Chiesa». Alle 8 e 35 del 16 ottobre, quando il presidente americano John Kennedy sta consumando la colazione nella stanza ovale della Casa Bianca, il suo consigliere McGeorge Bundy appoggia sul tavolo una serie di fotografie in grande formato, scattate da un aereo-spia U2 in volo sull’isola di Cuba: mostrano rampe destinate ad ospitare missili a testata nucleare, installate da tecnici sovietici. Missili che, se puntati contro gli Stati Uniti, sono in grado di colpire per la prima volta la popolazione americana sul suo territorio. Per il primo presidente cattolico degli Stati Uniti l’alternativa è drammatica: o subire la clamorosa, muscolare provocazione accettando il sopruso, o reagire con fermezza con il rischio di scatenare una guerra atomica. In una riunione d’urgenza convocata da Kennedy si discute per due giorni la difficile decisione da prendere. Sono tre le possibilità: attacco strategico alle basi cubane, con l’invasione dell’isola da parte dei marines, creazione di basi nucleari simili a Berlino Ovest, oppure blocco navale di Cuba. Quest’ultima soluzione è dettata dal fatto che il 18 ottobre 1962 sono avvistate nell’Atlantico 26 navi da carico battenti bandiera sovietica, in navigazione verso Cuba e sulle cui tolde sono ben in evidenza contenitori di missili. Il 22 ottobre, mentre in Europa la notte è alta e Roma è ancora avvolta nel sonno, il volto tirato del presidente Kennedy appare sui teleschermi di tutta l’America. Ha fatto la sua scelta: dà ufficialmente al mondo la notizia delle intenzioni offensive dei russi e annuncia come misura iniziale il blocco navale di Cuba, per evitare alle navi sovietiche di scaricarvi altri aiuti militari e sistemi missilistici. La pace mondiale non è mai stata così in pericolo dalla fine della seconda guerra mondiale. Ogni nave russa che trasporti materiale bellico sarà costretta a tornare indietro, anche con la forza. Se Mosca reagisce, o con un attacco a Berlino o con lancio di missili da Cuba, gli Usa risponderanno immediatamente, attaccando a loro volta il territorio dell’Unione Sovietica. Mentre le navi russe si avvicinano sempre più minacciose, le navi americane, zeppe di missili e cannoni, pattugliano l’oceano. Il loro primo scontro darà il via alla guerra?
Trattare è «una regola di saggezza e di prudenza»
Nel frattempo, tecnici russi lavorano giorno e notte per completare le rampe e i marines si concentrano in Florida, a poche decine di miglia marine da Cuba, pronti a intervenire con i mezzi da sbarco. A Mosca si svolgono dimostrazioni antiamericane, a Washington un generale russo dichiara: «Le nostre navi hanno avuto l’ordine di forzare il blocco e lo forzeranno. I nostri marinai sono pronti a morire per la patria». La diplomazia sembra impotente. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu è riunito in permanenza. Gli ambasciatori della Jugoslavia e della Polonia ammoniscono l’America, invitandola a non tirare troppo la corda: «Se a Mosca cade Kruscev sarà la fine», dicono, «perché è l’uomo della convivenza tra Est e Ovest, ma deve fronteggiare una forte opposizione interna. Un’umiliazione lo indebolirebbe troppo».
Come uscirne? A questo punto entra in gioco l’editore e giornalista americano Norman Cousins, direttore della rivista Saturday Review, in buoni rapporti con il Cremlino. Per risolvere conflitti di questa gravità, sostiene che è necessario ricorrere a un’autorità morale superiore, riconosciuta da entrambi, e questa autorità non può che essere il Papa. Contattato nella massima discrezione, Roncalli è disposto ad intervenire con un messaggio, che sarà comunicato in anteprima alle due superpotenze. Giovanni XXIII ci lavora nella notte tra il 23 e il 24 ottobre 1962, con i suoi collaboratori, i già citati monsignori Dell’Acqua e Cardinale. Ogni tanto li lascia per andare a inginocchiarsi in cappella e pregare. Il governo italiano, presieduto da Amintore Fanfani, è costantemente informato della autorevole mediazione vaticana in corso.
La mattina dopo il messaggio è consegnato agli ambasciatori russo e americano a Roma. La Pravda, il giornale del Partito comunista sovietico, precede tutti e lo pubblica in prima pagina, fatto mai accaduto per un documento pontificio. Papa Roncalli invita a continuare «a trattare, perché questo atteggiamento leale e aperto ha grande valore di testimonianza per la coscienza di ciascuno e davanti alla storia. Promuovere, favorire, accettare dei colloqui, a tutti i livelli e in ogni tempo, è una regola di saggezza e di prudenza, che attira le benedizioni del cielo e della terra». A mezzogiorno del 25 ottobre 1962 l’appello è diffuso dalla Radio Vaticana e tutto il mondo ne viene a conoscenza. In quelle stesse ore metà delle navi sovietiche, quelle più vicine alla zona critica del blocco navale americano in Atlantico, virano di bordo e riportano a casa le ogive nucleari. Seguiranno poi le altre. La catastrofe è scongiurata. I due schieramenti contrapposti, al di là e al di qua della “cortina di ferro”, rinunciano a misurarsi con le armi per la conquista di una supremazia mondiale. Alla morte di Giovanni XXIII, pochi mesi dopo, il 3 giugno 1963, Kruscev confesserà proprio a Norman Cousins: «Quest’uomo è un santo ». In un’altra occasione dirà di lui: «Sentiva il polso del tempo». Mentre per Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre di quello stesso 1963, Giovanni XXIII «ha portato carità e comprensione nei problemi più complessi di un’era tumultuosa». Quel che è certo, più di mezzo secolo dopo i fatti di Cuba, è che il “Papa buono” non è stato soltanto un uomo di Dio, ma è da ricordare anche la sua grandezza come abile negoziatore e accorto politico.
In conclusione, un episodio significativo. Alina, la figlia di Fidel Castro, in esilio a Miami, ha sostenuto in un’intervista di qualche tempo fa a un quotidiano italiano, che il padre – che era stato scomunicato il 3 gennaio 1962 proprio da Giovanni XXIII in quanto ateo militante – starebbe per convertirsi e tornare alla fede cattolica. Non sappiamo quanto sia credibile questa notizia. Ma se fosse vera, ci conforta. E ha tutta l’aria di un miracolo “tardivo” del prossimo Santo, che sarà elevato all’onore più alto degli altari domenica 27 aprile 2014, festa della Divina Misericordia, con il suo illustre successore Karol Wojtyla, cui ha offerto metà del nome da Pontefice.
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