Il Paradiso è una realtà sempre più trascurata dalle nostre omelie e catechesi, ma è invece la meta concreta della fede e dell’agire cristiano. Certamente ciò che appartiene alla dimensione dell’Eterno esula dai nostri schemi conoscitivi, dalle nostre terrene capacità di comprensione. Tuttavia, evitare di affrontarlo alla luce dei nostri strumenti di fede e di ragione, conduce inevitabilmente a un progressivo scetticismo e, così come accade per l’esistenza dell’Inferno, si rischia di approdare anche per il Paradiso alla scontata conclusione: poiché non sono in grado di comprenderlo, non ci credo.
Chi ha responsabilità pastorali o di evangelizzazione deve perciò fare in modo che la comunità cristiana si riappropri di questi Novissimi per non perdere il suo fondamento e la sua destinazione escatologica. Il Paradiso non è una verità opzionale, né un destino utopico, né una sorta di fabulandia. Il Paradiso è il senso ultimo di tutte le cose, la meta finale del nostro esodo esistenziale, lo scopo di ogni nostro agire. «Il Cielo è il fine ultimo dell’uomo, e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva» (CCC 1024).
Il Paradiso è il Regno preparatoci da Cristo, che, se da una parte «non è di questo mondo», dall’altra è «già in mezzo a noi». Trascendente e immanente al tempo stesso. Come del resto è trascendente e immanente Dio, a cui tutti i redenti sono uniti. I santi, infatti, cooperano alle azioni del mondo e le guidano. Il Paradiso è la Gloria di Dio nell’eterna comunione di tutti i salvati, una condizione di Grazia perfetta, la quale però non è estranea alle vicende umane. Le opere di bene sulla terra, pur rimanendo terrene, sono già segmenti di quella retta infinita che conduce al Cielo. Ecco perché i cattolici dediti al sociale non debbono temere che il pensare troppo al Paradiso sia una forma di alienazione, un modo per trascurare gli impegni terreni. Tutt’altro, è l’appartenenza piena al nostro destino ultimo che ci conferisce piena concretezza quaggiù. Anzi, proprio coloro che abitano col cuore già nel Regno di Dio hanno vere capacità trasformanti della realtà che ci circonda. Sono quei credenti la cui statura arriva fino in Cielo, perché Cristo vive in loro e tramite essi distribuisce la grazia donata alla terra. Le azioni sociali create solo da uno spirito di efficientismo rimangono finalizzate a se stesse, col tempo si rivelano sterili, prive di capacità redentiva e trasformante. Sono le opere della fede a veicolare la grazia.
«Saremo simili a Lui, poiché lo vedremo come Egli è; chiunque ha questa speranza in Lui, diventa puro come Egli è puro», scrive san Giovanni nella sua prima Lettera (3,2-3). Credere nel Paradiso è avere “questa speranza”. Non si tratta di un sogno, di un desiderio illusorio, si tratta di una verità garantitaci da Cristo, preparata per noi fin dall’origine del mondo (cf Mt 25,34). È in questa “città di Dio” che ci riappropriamo della nostra natura originaria: «Adesso vediamo come in uno specchio, in una immagine; ma allora vedremo faccia a faccia; adesso conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto» (1 Cor 13,12). E se certamente là udiremo «parole ineffabili, che non è possibile ad un uomo proferire» (2 Cor 12,4), il nostro compito qua è di non tacere, ma di annunciare, riguardo a questa verità, ciò che invece ci è lecito (e doveroso) proferire.
IL TIMONE N. 119 – ANNO XV – Gennaio 2013 – pag. 61
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