15.12.2024

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Gli editti salva-cristiani
31 Gennaio 2014

Gli editti salva-cristiani

La lunga stagione delle persecuzioni romane ai cristiani ebbe un andamento curiosamente discontinuo, nel quale si alternavano crudeli repressioni con momenti di tregua sanciti da qualche editto. Già Domiziano, imperatore di Roma fra l’81 e il 96, pur annoverato fra i più feroci persecutori accanto a Nerone, sembrò dimostrare maggiore morbidezza verso la fine del suo regno. Un brano del libro terzo della Historia Ecclesiastica di Eusebio da Cesarea riporta infatti un episodio in cui due cristiani finirono a processo dinanzi a questo imperatore, che l’interrogò, ed essi risposero di vivere col lavoro della terra, «da cui pagavano le tasse e traevano nutrimento, coltivandola con le proprie mani. Gli fecero vedere poi le mani, mostrando come prova della propria fatica la rudezza della superficie e i calli su di esse formatisi a causa del continuo lavoro. Interrogati su Cristo, sulla natura del suo regno e sul come, sul dove e sul quando si sarebbe manifestato, dissero che esso non era di questo mondo, né terreno, ma celeste e angelico, e avrebbe avuto compimento alla fine dei secoli, quando, salendo in gloria, Cristo avrebbe giudicato i vivi e i morti e avrebbe dato a ciascuno in base alle proprie azioni. A queste parole Domiziano non manifestò nessuna ostilità nei loro confronti, ma si mostrò anzi benevolo, lasciandoli liberi e mettendo fine, con un decreto, alla persecuzione contro la Chiesa» (III, 20).
Anche il suo successore, Nerva (96-98), emise appena eletto un editto che sancì temporaneamente la fine delle persecuzioni. Con Traiano (98-117), queste ripresero ferocemente, sebbene con un freno riguardo alle denunce anonime. Ma già il successore Adriano (117-138) promulgò un decreto nel quale, rivolgendosi al proconsole d’Asia, scriveva testualmente: «Non mi sembra opportuno lasciare il problema in sospeso, affinché lo scompiglio non regni fra gli uomini, e non si dia ai diffamatori pretesto per le loro azioni malvagie. I governatori delle province, che in virtù della loro carica possono apertamente agire contro i cristiani, facciano in modo che questi possano difendersi anche in tribunale. Si diano pensiero solo di questo, e non di assecondare soltanto i desideri e le grida del popolo. È molto più conveniente che, se qualcuno volesse accusare un cristiano, tu esamini a fondo l’accusa. Se dunque qualcuno li denuncia e provi che essi agiscono contro le leggi, si dia loro la pena adeguata alla gravità della loro colpa. Ma, per Ercole!, se qualcuno li accusa di questo solo per calunniarli, giudicalo in base alla gravità della diffamazione, e pensa a come punirlo » (IV, 9).
Anche il figlio Antonino che gli succedette (138-161), riguardo ai cristiani scrisse all’assemblea dei legati delle province: «So che anche agli dei è caro vendicarsi di uomini siffatti: questi ardono molto più di voi dal desiderio di punire coloro che non vogliono adorarli. Ma se voi li annientate, rivolgendo loro l’accusa di ateismo, li confermerete ancora di più nella fede: infatti, sebbene accusati sulla base di un sospetto, essi preferiscono morire per il proprio Dio piuttosto che vivere. Per questo vincono, perché rinunciano alla propria vita pur di non piegarsi a fare ciò che a voi sembra bene che essi compiano. (…) Confrontate il nostro atteggiamento con il loro: essi sono infatti più fiduciosi nel loro Dio, voi invece, per tutto il tempo in cui sembra non sappiate cosa fare, non vi prendete cura degli altri dèi e della religione di Dio immortale, ma osteggiate i cristiani che lo adorano, perseguitandoli fino alla morte. Ai molti governatori delle province che già gli scrissero su uomini siffatti, il nostro divinissimo padre rispose di non perseguitarli se non erano sospettati di ordire un complotto contro l’impero di Roma. E molti hanno chiesto anche a me come comportarsi nei loro confronti; a costoro ho risposto seguendo il pensiero di mio padre. Ma se qualcuno persevera nel denunciare uno di loro solo perché è cristiano, l’accusato sia prosciolto dalla denuncia anche se fosse chiaro che egli lo è veramente, mentre l’accusatore dovrà subire la giusta pena. Ciò sia pubblicato a Efeso» (IV, 13).
Quest’altalena fra persecuzioni ed editti continuò per più di un secolo, fino a quando Costantino, sconfitto il rivale Massenzio, promulgò il ben noto Editto di Milano del 313, che seguiva di soli due anni quello di Galerio del 311, che già aveva dichiarato il cristianesimo “religio licita”. Ecco come lo stesso Costantino, in una lettera in cui esponeva il suo intendimento, commenta il proprio editto: «Quando noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, felicemente ci incontrammo nei pressi di Milano e discutemmo di tutto ciò che attiene al bene pubblico e alla pubblica sicurezza, questo era quello che ci sembrava di maggior giovamento alla popolazione, soprattutto che si dovessero regolare le cose concernenti il culto della divinità, e di concedere anche ai cristiani, come a tutti, la libertà di seguire la religione preferita, affinché qualsivoglia sia la divinità celeste possa esser benevola e propizia nei nostri confronti e in quelli di tutti i nostri sudditi. Ritenemmo pertanto, con questa salutare decisione e corretto giudizio, che non si debba vietare a chicchessia la libera facoltà di aderire, vuoi alla fede dei cristiani, vuoi a quella religione che ciascheduno reputi la più adatta a se stesso. Così che la somma divinità, il cui culto osserviamo in piena libertà, possa darci completamente il suo favore e la sua benevolenza».

IL TIMONE N. 111 – ANNO XIV – Marzo 2012 – pag. 61

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