Due inserzioni rivolte al più letto quotidiano americano criticano la Chiesa cattolica e l’islam. La prima viene accettata, la seconda rifiutata per timore di rappresaglie. Dominano la paura e il “politicamente corretto”. Ma come devono reagire i cattolici?
Le prove e le dimostrazioni che, quando si tratta di offese alla sensibilità, critiche rozze, polemiche malevole e insulti gratuiti, il cristianesimo e i cristiani sono trattati molto peggio delle altre fedi e degli altri credenti, non mancano di certo. Anzi: abbondano.
Le due inserzioni
L’ultima in ordine di tempo però è particolarmente brillante e illuminante. È successo questo: a metà di marzo sulle pagine del New York Times è apparsa un’inserzione pubblicitaria pagata da un’organizzazione atea, la Freedom From Religion Foundation, che invitava i cristiani “nominali” e “liberal” a prendere in considerazione l’idea di abbandonare completamente la Chiesa cattolica. L’inserzione verteva intorno al rigetto della contraccezione e dell’aborto da parte della gerarchia ecclesiastica, giudicato un attentato ai diritti della donna al quale i cattolici illuminati dovrebbero reagire con l’apostasia pura e semplice.
Un paio di settimane dopo al New York Times è stata proposta una pubblicità simile alla precedente, ma rivolta ai fedeli musulmani “moderati”, invitati ad abbandonare in massa l’islam perché questa religione è contraria alla libertà religiosa, alla libertà di parola e ai diritti delle donne. L’inserzione, richiesta dalla presidente e dal vice presidente di Stop the islamization of Nations – American Defense Initiative (Sion-Adi), è stata rigettata con la motivazione che «i contraccolpi della sua pubblicazione potrebbero mettere in pericolo le vite dei soldati americani e/o di civili in Afghanistan». Due pesi e due misure, come ciascuno può vedere. Pamela Geller, la presidente di Sion-Adi, ha commentato che l’accaduto «rivela l’ipocrisia del New York Times e la sua disponibilità a piegarsi alla violenta intimidazione islamica suprematista ». Bill Donahue, della Catholic League, ha deplorato il palese doppio standard del Nyt come il prodotto «o di intolleranza, o di paura».
Indignati ma non sorpresi
L’indignazione è legittima, ma la sorpresa no: la disonestà intellettuale del New York Times è consolidata; il quotidiano ha cavalcato in lungo e in largo lo scandalo della pedofilia nel clero cattolico, ma non ha dedicato un centesimo della stessa attenzione agli scandali sessuali pedofili fra i protestanti, gli ebrei e i musulmani, percentualmente simili a quelli della Chiesa cattolica. Così come la sua codardia: dopo le reazioni islamiche al discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, il giornale non difese affatto voltairianamente il diritto del Papa ad esprimere il suo articolato pensiero, ma prese per buona la reazione degli intolleranti, definì il discorso «un insulto all’islam» e intimò al Papa di «offrire con parole persuasive le sue scuse».
Come dicevamo all’inizio, non c’è bisogno di concentrare i riflettori sulla stampa liberal di New York per imbatterci in esempi di doppio standard quando si tratta del trattamento riservato ai cattolici rispetto ai fedeli di altre religioni o tradizioni nell’ambito della comunicazione. Molti ricorderanno la vicenda della mediocre e blasfema pièce teatrale di Romeo Castellucci, “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, andata in scena nel gennaio scorso al Teatro Franco Parenti di Milano, nel corso della quale un’immagine di Cristo ripresa da un quadro di Antonello da Messina viene imbrattata di escrementi. Chi si prefiggeva di protestare in modi nonviolenti contro la buffonata gnosticheggiante venne deriso e ostracizzato dalla grande stampa cittadina ed etichettato da numerosi intellettuali e commentatori come intollerante, retrogrado, fascista. Lo spettacolo ebbe regolarmente luogo per tre sere di seguito, in prima fila l’assessore milanese alla Cultura Stefano Boeri. Meno di due anni prima, il Comune di Milano aveva ritirato un manifesto che pubblicizzava una mostra dell’artista Maurizio Cattelan perché esponenti della comunità ebraica cittadina avevano protestato contro l’immagine che esso esibiva: Adolf Hitler inginocchiato in preghiera. C’è da credere che se il manifesto avesse proposto un’altra installazione (si chiamano così, e per fortuna: non siamo costretti a definirle opere d’arte) del maestro patavino, quella in cui Giovanni Paolo II è abbattuto niente meno che da un meteorite, nessuno avrebbe gridato all’offesa; e se qualcuno l’avesse fatto, sarebbe stato condannato come intollerante e il Comune non avrebbe pensato nemmeno per un istante di rimuovere la locandina, incoraggiato in questo da Corriere della Sera, Repubblica, ecc.
Come reagire?
Questa dunque la realtà. Ma c’è una domanda che non lascia tranquilli: come dovrebbero reagire i cattolici a questo genere di provocazioni? Alla logica palese dei due pesi e delle due misure ai loro danni? La risposta non è scontata, perché bisogna tenere conto della possibilità che la reazione faccia il gioco dell’aggressore. Se i cattolici non reagiscono, incoraggiano i loro nemici a concludere che qualunque abuso può essere compiuto contro di loro: cioè incoraggiano chi compie un’ingiustizia a compierne di maggiori; se reagiscono invocando il principio della non discriminazione, finiscono per accettare la logica relativista che permea le legislazioni che proteggono le minoranze etniche, religiose, sessuali, ecc. La riduzione della Chiesa a una minoranza bisognosa di speciale protezione, alla stregua dei rom o dei cosiddetti “lgbt”, sarebbe una vittoria peggiore di una sconfitta come quella costituita dalla libertà di blasfemia contro i simboli dei cristiani.
La persecuzione e il martirio fanno parte intrinsecamente dell’annuncio evangelico (vedi per esempio Lc 19,17; Lc 21,12- 19; Mc 10,28-30), e sarebbe poco profetico il cristiano che esigesse la garanzia di una protezione legale da tutto ciò. La persecuzione non è un ostacolo per il cristiano, ma lo spazio stesso di una testimonianza nella quale l’amore manifesta il suo carattere soprannaturale, perché si rivolge ai nemici stessi («Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno», Lc 23,34). Il giorno in cui i cristiani fossero trattati con giustizia dal mondo, fossero cioè trattati esattamente come tutte le altre “minoranze” e religioni, questo sarebbe il segno che il cristianesimo non inquieta più i poteri di questo mondo, non li mette più in crisi: sarebbe il segno che il cristianesimo è diventato qualcosa di mondano. I musulmani soffrono discriminazioni perché considerati invadenti, gli ebrei per la loro coesione di gruppo, ma i cristiani subiscono attacchi di tutti i generi per una ragione più radicale: è perché pretendono di poter offrire la verità sull’uomo, e che questa coincida con l’incarnazione, passione, morte e resurrezione di Gesù il Cristo.
Da queste considerazioni discende che i cristiani non debbano mai protestare pubblicamente, querelare chi li diffama, chiedere leggi a protezione della libertà religiosa e contro la blasfemia, invocare la censura contro opere come quelle di Romeo Castellucci? Assolutamente no, a mio parere. Profezia e lassismo sono due cose molto diverse. La diffamazione dei credenti o la rappresentazione degradante e/o abietta del divino, ma anche dell’umano, non costituiscono soltanto delitti contro Dio, ma anche attacchi alla sacralità della persona umana e alla coesione sociale.
La persona di Dio non patisce alcun danno o diminuzione dalle blasfemie, ma l’uomo sì. Il sacrilegio è la premessa logica dell’omicidio e del genocidio. Se il Figlio di Dio non è degno di alcun rispetto, e l’uomo è solo un corpo che si disfa inesorabilmente, allora l’intrinseca dignità dell’uomo non può essere più affermata, e ogni argine a difesa della sacralità della vita umana è tolto. Chi imbratta il volto di Cristo come è accaduto nella pièce teatrale “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, che ne sia consapevole o no, prepara le nuove Auschwitz. Questa dovrebbe essere la preoccupazione che spinge i cristiani a farsi valere pubblicamente e a cercare di ottenere provvedimenti giurisdizionali adeguati nei casi di diffamazione, di offesa e di profanazione. Non certo un’inclinazione a sentirsi facilmente offesi, che è piuttosto tipica di altri gruppi.
IL TIMONE N. 113 – ANNO XIV – Maggio 2012 – pag. 16 – 17
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