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22.12.2024

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La virtù come amore
31 Gennaio 2014

La virtù come amore

 


 

La perfezione morale dell’agire si consegue quando esso è motivato non già da un dovere, bensì dal (vero) amore, per sé e per gli altri. E tutte le azioni possono diventare espressioni di amore

 

 

Le azioni d’amore sono quelle moralmente più grandi e più nobili che l’uomo possa compiere, perciò la perfezione dell’agire moralmente buono si realizza quando l’azione che compiamo è motivata dal giusto amore per sé e/o per gli altri. Lo scopo delle seguenti righe è mostrare, sia pur brevemente, come sia possibile esercitare le azioni moralmente buone come espressioni di amore.
Va subito precisato che, qui di seguito, amare significa volere il bene di qualcuno e cercare di realizzarlo, cioè significa volere (e se possibile fare) il bene di me stesso (amore di sé) o di un altro (amore degli altri). Del resto, dire «ti voglio bene» e/o «mi voglio bene» equivale a dire «voglio per te il bene» e/o «voglio per me il bene».
In altri termini, l’amore implica anche sentimenti ed emozioni, ma non è a questi che ci riferiamo in questo articolo.

L’azione virtuosa e (l’autentico) amore di sé
Anzitutto, io stesso (come ogni essere umano) merito di essere oggetto della mia sollecitudine, perciò il giusto amore per me stesso è una parte della mia vita moralmente buona.
Inoltre, l’amore per me stesso mi consente di poter cercare di conseguire la vita moralmente buona, per due motivi: 1. sia perché la vita moralmente buona esige come condizione la vita biologica (se non sopravvivo non posso fare nulla e se sopravvivo nella miseria debbo preoccuparmi quasi esclusivamente di riuscire a continuare a sopravvivere); di più, per poter provvedere a qualcuno, sia adesso sia in futuro, debbo amare me stesso: pensiamo, in particolare, alla trasformazione che la nascita di un figlio e l’amore per lui inducono nei suoi genitori, che, non di rado, modificano non solo quegli stili di vita che possono essere nocivi per la salute dei figli, ma anche quelli nocivi soltanto per loro; 2. sia perché per propormi un ideale (morale, ma non solo) devo avere l’autostima necessaria per pensare di poterlo conseguire, devo avere fiducia in me stesso, e questa autostima è già una certa forma di amore di sé.
Inoltre, poiché altri (altri esseri umani e/o, perlomeno, Dio) mi amano, io devo avere a cuore il mio bene perché a loro il mio bene preme: in effetti, diverse persone hanno cura di sé ed evitano di lasciarsi andare (pensiamo soprattutto agli anziani) proprio per compiacere coloro che le amano.
Si può pensare che l’amore di sé sia moralmente riprovevole perché lo si identifica con l’autoindulgenza, quando invece l’amore e l’indulgenza sono distinti e spesso contrari. L’amore autentico non è condiscendente o compiacente, bensì è esigente, poiché vuole il bene – e dunque vuole anche e principalmente il bene morale – di qualcuno, che quest’ultimo sia il sé o qualcun altro. Per converso, questa esigenza dell’amore spiega, almeno in parte, per quale motivo la persona egocentrica non solo non vuole amare, ma non vuole nemmeno essere amata di un tale amore esigente. Infatti, tale amore degli altri la obbligherebbe ad impegnarsi attivamente ad essere virtuosa, la obbligherebbe alla virtù e ad amare a propria volta.

L’azione virtuosa e l’amore per gli altri
Non soltanto le azioni che promanano dalla giustizia, ma anche le altre azioni virtuose hanno un aspetto relazionale. Ad esempio, il vero coraggio, contrapposto alla mera temerarietà, richiede un interesse vero (cioè non strumentale) per il bene dei concittadini e della patria; la vera temperanza richiede il giusto rispetto per le altre persone, che non debbono essere ridotte a mezzi della mia soddisfazione; la vera generosità richiede un interesse per il bene di chi riceve, ecc.
Senza accogliere tutto il discorso di Agostino (De moribus ecclesiae contra Manicheos, I, 15, 25, De civitate Dei, XV, 22), possiamo ulteriormente dire che le azioni pienamente virtuose sono declinazioni dell’amore considerando le quattro virtù cardinali, cioè la temperanza, la giustizia, la fortezza e la saggezza-phronesis.
La perfetta temperanza è innervata dall’amore, è la virtù che mi custodisce e mi preserva capace di donarmi a chi amo o che (perlomeno) mi rende capace di non trattare gli altri come mezzi, bensì come fini in sé.
La giustizia nella sua pienezza è l’amore che realizza il bene di chi amo. La perfetta fortezza è innervata dall’amore con cui affronto le difficoltà e gli ostacoli per conseguire il bene di chi amo (me stesso o qualcun altro).
La perfetta saggezza-phronesis (su cui cfr. il Timone, 85 [2009], pp. 50-51) è sospinta dall’amore, è la virtù che discerne le azioni che procurano il vero bene di chi amo (me stesso o qualcun altro).
Più precisamente, le azioni pienamente virtuose hanno il giusto amore (verso me stesso o verso altri) come causa efficiente e come intenzione. Infatti, l’amore «può assumere effetti e azioni che non sono immediatamente e specificamente designabili come espressioni d’amore; ma assumendole […], dando loro un nuovo ulteriore fine, le può far diventare espressioni d’amore» (Giuseppe Abbà, Felicità, vita buona e virtù. Saggio di filosofia morale, Las, 1995, p. 61).
Per esempio, posso andare a lavorare per dovere o per guadagnarmi da vivere, e/o per amore della mia famiglia. Ed ogni azione (faticosa, ma anche piacevole, gloriosa ma anche umile, ecc.) può essere offerta con amore a Dio (anche lavare i piatti, pulire i pavimenti, ecc.).
Così, è vero che, considerata in sé stessa, la saggezza non è amore, ma quando attinge la sua perfezione è mossa dall’amore, che la attiva affinché ragioni così: «questo atto che sto per compiere, qui e ora, esprime o non esprime l’amore (vero) per me e per gli altri?». Qui evinciamo la necessità di esercitare verso l’altro un’attenzione premurosa capace di percepire gli aspetti salienti della sua condizione, capace di immedesimarsi empaticamente, e ciò che ci rende capaci di dirigere l’attenzione in questo modo è proprio l’amore. In tal senso, negli scritti giovanili Hegel arriva a dire che «se l’amore non fosse l’unico principio della virtù, ogni virtù sarebbe nello stesso tempo un vizio». Poi mitiga (giustamente) questa affermazione precisando che «l’amore è il compimento delle virtù».

Il bene morale è più ampio del dovere
In effetti (il tema meriterebbe un lungo discorso: al riguardo si leggano, per esempio, Pinckaers 1992 e Samek Lodovici 2002, cfr. bibliografia), noi siamo abituati da secoli di legalismo a pensare che l’uomo morale sia colui che vive un’esistenza a colpi di senso del dovere, motivato dalla pressione di obblighi, norme, divieti e imperativi. Tuttavia, l’uomo pienamente morale vive piuttosto motivato dall’amore e le azioni pienamente
virtuose sono proprio espressioni di amore. Così, un dovere morale prescrive di compiere per la pressione di un obbligo quella stessa azione che l’amore, se ci fosse, avrebbe già compiuto liberamente.
Ora, si noti che non vogliamo qui sostenere che l’uomo pienamente virtuoso non abbia doveri e non li rispetti: sia chiaro, egli rispetta certamente degli obblighi e delle norme, ma la motivazione delle sue azioni è l’amore, non il dovere e (come dice ancora Hegel) «nell’amore viene meno ogni pensiero di dovere»: per riprendere l’esempio precedente, andare a lavorare per un uomo adulto significa compiere il proprio dovere, ma l’uomo pienamente morale lo fa per amore di qualcuno (e/o di Qualcuno).
Del resto, l’insieme delle azioni moralmente buone contiene l’insieme delle azioni doverose, ed è più ampio di esso: l’uomo morale compie talvolta anche degli atti buoni ma non doverosi (per esempio, molti atti dell’amicizia non sono doverosi), alcuni dei quali sono molto nobili e raggiungono l’apice dell’eccellenza morale (ad esempio, dare la vita per gli altri).

 

BIBLIOGRAFIA

 

Servais Pinckaers, Le fonti della morale cristiana. Metodo, contenuto, storia, Ares, 1992, pp. 26-64.
Giacomo Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero, 2002, pp. 3-13
Giacomo Samek Lodovici, L’emozione del bene. Alcune idee sulla virtù, in corso di pubblicazione.

 

 

 

 

 

IL TIMONE N. 90 – ANNO X II – Febbraio 2010 – pag. 30 – 31

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