Cristiani uccisi e chiese distrutte. Il disegno di "purificare" l'India da tutto quello che non è indù.
Origini e ideologia di un altro fondamentalismo. Non meno pericoloso di quello islamico.
Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le notizie di violenze contro i cristiani in India. Particolarmente colpito, a partire dall'agosto scorso, lo Stato dell'Orissa. Ma episodi di assalti, ferimenti, distruzioni si sono ripetuti in vari altri punti del Paese, con un'intensità e una frequenza particolarmente preoccupanti.
Un tragico bilancio
Il bilancio – purtroppo – va aggravandosi di giorno in giorno. Nel momento in cui scriviamo (fine settembre) questa è la situazione: dal 24 agosto (ovvero dall'inizio dei più recenti "disordini") vi sono stati 59 cristiani uccisi; 177 chiese distrutte e danneggiate; 4300 case di cristiani incendiate; 13 scuole o centri sociali distrutti; 50 mila persone in fuga; oltre 18 mila feriti. Il bilancio è stato fornito all'agenzia AsiaNews da John Dayal, l'attivista cattolico dell'All India Christian Council.
Solo un'opinione pubblica distratta e provinciale come quella europea, va detto, poteva assistere a tutto questo come a qualcosa di improvviso e imprevedibile. L'offensiva anticristiana ha incrinato, speriamo definitivamente, l'immagine stereotipata, cara agli ingenui, che considera l'India – patria del Mahatma Gandhi, profeta della non violenza – una terra di coabitazione pacifica tra culture ed etnie diverse, tra seguaci delle diverse religioni. La realtà è assai più complessa: se è vero che la gente comune vive generalmente un rapporto con il diverso nel segno dell'ospitalità e del dialogo, è altresì vero che da tempo l'India è percorsa dal veleno del fondamentalismo indù, che da anni semina violenza e non di rado morte (come negli ultimi anni abbiamo insistentemente documentato sulla rivista missionaria del Pime Mondo e Missione).
Nel mio libro Lo scandalo del martirio uscito due anni fa – facevo notare la gravità del fenomeno, osservando lo stillicidio di uccisioni e ferimenti di personale religioso cristiano avvenuto negli ultimi decenni e segnalavo che, se è vero che l'estremismo islamico colpisce in molte parti del mondo, quello che strumentalizza la religione induista non è meno pericoloso. Del resto, basterebbero i numeri forniti dagli attivisti per i diritti umani a documentare un trend a dir poco allarmante.
Un pretesto per il massacro
Come detto, i fatti recenti hanno visto come principale teatro delle violenze lo Stato dell'Orissa nel Nord-Est del Paese. L'occasione immediata (meglio: il pretesto) che ha dato il via all'offensiva anti-cristiana è stato l'assassinio di un leader radicale indù, Swami Laxmanananda, la cui responsabilità è stata addossata ai cristiani, mentre la polizia ritiene che autori del crimine siano guerriglieri maoisti. Da quel momento, la campagna di distruzione contro i cristiani e le loro istituzioni si è caratterizzata per violenza e durata. Ma non si tratta – purtroppo – che dell'ultimo episodio di una serie. Alla vigilia dello scorso Natale proprio l'Orissa era stata scossa da un attacco efferato ai cristiani locali, un attacco chiaramente premeditato. Il punto è che in Orissa gli attacchi contro i cristiani datano da decenni; non tutti sanno che proprio quello fu il primo Stato a varare una legge anti-conversione fin dal 1967, seguito poi da alcuni altri. Lo stesso Swami aveva fatto dell'eliminazione dei cristiani uno dei suoi obiettivi principali. AI pari di molti leader indù, si batteva per fermare le conversioni di tribali e paria dall'induismo al cristianesimo in quanto, a suo dire, estorte con l'inganno e la forza oppure ottenute pagando in denaro.
«Quanto prima i cristiani ritornano nell'ovile dell'induismo, tanto meglio sarà per la nazione», era uno degli slogan preferiti di Swami.
Le radici ideologiche del fondamentalismo indù
Se l'Orissa – insieme ad alcune altre zone – costituisce uno dei punti più "caldi" in assoluto sotto il profilo della tolleranza religiosa, va detto che l'odio verso i cristiani si sta diffondendo (non da oggi!) nelle pieghe della società indiana un po' ovunque. Alla base di questo fenomeno vi sono molteplici ragioni, di carattere religioso e culturale, ma soprattutto di natura politica. Non si può adeguatamente illuminare il senso di quanto sta accadendo in India senza citare il fenomeno dell'hindutva (che potremmo tradurre con "induità"). Con questo termine viene indicato il movimento nazionalista indù e l'ideologia che l'accompagna e che tende a identificare tout court l'induismo con la nazione indiana (e viceversa). La prima organizzazione che esplicitamente si propose di divulgare tale ideologia (non senza guardare con simpatia a sistemi politici quali il fascismo in Italia e il nazionalsocialismo in Germania) fu il famigerato Rss Sangh (Rashtryiya Swayam Mahasabha), fondato nel 1925. Messo al bando dopo l'assassinio di Gandhi, avvenuto il 30 gennaio 1948, il Rss ha costituito nel corso degli anni una serie di organismi, tra cui il Jan Sangh (nel 1951), divenuto in seguito il temibile Bjp, Bharatiya Janata party, ovvero il Partito del popolo indiano.
L'adesione all'ideologia dell'hindutva – spiega uno dei suoi guru, Vinayak Damodar Savarkar (1883-1966), in Hindutva: who is a Hindu? – richiede quattro condizioni: l'essere nato e cresciuto sul territorio indiano; l'appartenere alla razza indiana, ossia avere sangue indù; apprezzare la pratica dei costumi e delle tradizioni dell'induismo e accettare solo l'India come terra sacra; infine aderire a una delle tradizioni religiose nate in India, ossia l'induismo, il buddismo, il jainismo e il sikhismo, considerate tutte ramificazioni dell'induismo. Per diffondere capillarmente l'ideologia che vuole l'India indù da sempre (e per sempre), i militanti delle varie organizzazioni – che presidiano i gangli vitali della macchina statale – hanno cercato di imporre negli ultimi anni una rilettura della storia forzata in chiave nazionalistica. Contro questo processo di "zafferanizzazione" si sono levate molte voci sia all'interno delle Chiese cristiane che della società, non ultimo il premio Nobel per l'economia Amarthya Sen.
Le conseguenze politiche
Questa ideologia, che sovrappone appartenenza nazionale e religiosa in maniera strettissima, ha ovviamente conseguenze politiche devastanti. Conseguenze che i teologi indiani – in un documento di alcuni anni fa in cui affrontavano il problema – descrivono così: «gli indù che si trovano all'interno dell'ovile indù devono unirsi e lottare contro i loro nemici. Questi ultimi dovranno convertirsi all'induismo e abbandonare le loro credenze e pratiche culturali, esaltare la razza e la cultura indù" (Indian Theological Review, settembre-dicembre 2000). Se non lo fanno – spiega un altro ideologo dell'hindtuva, Madoav Sarasinh Golwakar – «potranno restare nel Paese ma completamente subordinati alla nazione indù, senza alcuna rivendicazione (…), nemmeno i diritti di un cittadino". Con premesse del genere si può intuire quanto sia difficile per le minoranze non indù – pur nell'India che si dice laica e tollerante – ottenere il rispetto delle leggi, la tutela delle autorità pubbliche, e via di questo passo. Al contrario, gli abusi e le lacune evidenti registratesi negli ultimi mesi danno chiaramente l'impressione che le autorità dello Stato, per motivi politici, siano conniventi con i fondamentalisti indù. Nel caso dell'Orissa, al governo c'è una coalizione sostenuta da un partito fondamentalista indù, il Bharatiya Janata Party. Il timore è che precipiti in un clima di tensione come quello del Gujiarat, divenuto luogo di massacri e «laboratorio» dell'induismo più retrivo e aggressivo.
Gli effetti della diffusione del cristianesimo
Accanto all'elemento culturale e politico, imperniato su un nazionalismo religioso, c'è un altro fattore, di natura socio-economica, che ha scatenato l'opposizione contro i cristiani.
Fin dal loro affermarsi, i movimenti che propugnano l'hindutva, accanto alla promozione di una monocultura e ideologia, si fecero portatori di vantaggi economici per le caste alte. Il timore di perdere privilegi li ha portati a guardare con sospetto e crescente ostilità l'affermazione, in campo sociale ed economico, dei "Dalit", ossia i fuoricasta, che spesso abbracciano il cristianesimo come religione portatrice di una liberazione integrale (spirituale e umana). Quanto accaduto di recente in Orissa è paradigmatico, come ha spiegato efficacemente il padre verbita Augustine Kanjamala, docente all'università di Mumbai: «La società si accorge che nell'Orissa, ovunque vi è presenza di missionari cristiani, avviene anche un importante cambiamento sociale. La gente si sviluppa, c'è una maggiore dignità nel loro modo di vivere e di comportarsi. Grazie all'educazione che ricevono – anche solo l'educazione di base – i tribali e i Dalit non sono più disponibili a essere usati come manodopera a basso costo per l'agricoltura. La loro dignità ed educazione dà loro il coraggio di protestare contro lo sfruttamento e l'oppressione" (AsiaNews, agosto-settembre 2008, p. 26).
BIBLIOGRAFIA
J. Dayal, A matter of equity. Freedom of Faith in Secular India, Anamika, New Delhi 2007.
G. Fazzini, Lo scandalo del martirio. Inchiesta sui testimoni della fede del terzo millennio, Ancora, 2006.
IL TIMONE – N.77 – ANNO X – Novembre 2008 – pag. 26-27