Il sacerdote dev’essere come il celibe Cristo, deve amarlo come si ama una sposa, dedicarsi integralmente a Lui e alle anime ed entrare a far parte di una nuova famiglia (la comunità sacerdotale). Anche storicamente è sempre andata così.
La vicenda di Milingo ha rinfocolato le critiche al celibato sacerdotale. E’ opportuno vedere alcuni argomenti che giustificano la scelta celibataria fatta dalla Chiesa.
Le ragioni della disciplina eccesiastica
2) Il celibato è una scelta d’amore esclusivo per Gesù, da cui promana l’amore per tutti coloro che Egli ama. È una scelta esclusiva come la scelta di un coniuge, a cui si deve dedicare la propria vita, e da cui promana l’amore per le persone amate dal coniuge. Secondo san Paolo «chi non è sposato si preoccupa […] come possa piacere al Signore» (1 Cor 7,32). «Piacere al Signore» vuol dire amarLo: infatti l’uomo cerca di piacere alla persona amata. Il «piacere a Dio» del sacerdote, così, ha il carattere della relazione interpersonale degli sposi.
3) Dai passi di S. Paolo si comprende anche che, mediante il celibato, l’amore per Dio e l’amore per il prossimo possono essere più integrali. Mentre chi non è sposato si preoccupa di come piacere a Dio, l’uomo sposato deve preoccuparsi anche di come accontentare la moglie. Paolo osserva che l’uomo legato col vincolo matrimoniale «si trova diviso» (1 Cor 7,34) a causa dei suoi doveri familiari. La persona non sposata può dedicarsi completamente a Dio. Paolo precisa ancora quando parla della situazione della donna sposata e di quella che ha scelto la verginità o non ha più il marito: mentre la donna sposata deve preoccuparsi di «come possa piacere al marito», quella non sposata «si preoccupa delle cose del Signore» (1 Cor 7,34).
Il cardinal Castrillon Hoyos ha sottolineato la connessione tra l’Eucaristia e lo stato del sacerdote, il quale può «trasformare la propria esistenza sacerdotale in un dono radicale per la Chiesa e per l’umanità, vale a dire assumere una “forma eucaristica”. L’Eucaristia, infatti, costituisce il momento culminante nel quale Cristo, nel suo Corpo donato e nel suo Sangue versato per la nostra salvezza, svela il mistero della sua identità ed indica il senso del ministero sacerdotale». Il sacerdote che amministra l’Eucaristia, che è dono perfetto, deve essere egli stesso dono totale. Anche chi si sposa è chiamato a seguire Gesù in modo radicale, mettendolo al centro di tutte le sue attività e del matrimonio. Ma, obiettivamente, la sua disponibilità non sarà dello stesso tipo di quella del sacerdote, che può esercitare la sua piena dedizione (a Dio e a vantaggio di tutte le anime) in maniera concretamente più ampia.
4) Il legame degli apostoli con Gesù era concretamente vissuto nella forma di una piccola comunità fraterna ed amicale unita intorno a Lui. C. Cochini dimostra che i Padri della Chiesa sono unanimi nel dichiarare che coloro tra gli apostoli che potessero essere stati sposati (nel Vangelo si parla della suocera di Pietro) hanno interrotto la vita coniugale e praticato il celibato. Gli apostoli furono invitati a lasciare tutto, per divenire «pescatori di uomini». La rinuncia ai legami familiari porta a convivere e ad intrattenere una rete di relazioni profonde e costanti con altri discepoli di Gesù. Infatti, la proposta di lasciare la relazione coniugale e le relazioni familiari in genere mira esplicitamente ad assumere altre relazioni interpersonali: quella con lo stesso Gesù, quelle coi compagni della comunità sacerdotale e, poi, con gli uomini.
Inoltre, la fraternità sacerdotale è immagine della comunione trinitaria. Come nei primi secoli dell’era cristiana il vedere come si amavano i cristiani (cfr. At 2,47) era già l’attrattiva più efficace per convertire i pagani, così vedere l’amore nella comunione presbiterale esprime la comunione trinitaria ed attira ad entrarvi. Insomma, parlando del celibato sacerdotale bisogna evitare di intenderlo come una rinuncia all’amore: è la scelta di amare Gesù, gli altri sacerdoti e il proprio gregge.
Nessun disprezzo per gli affetti interpersonali
Quanto detto indica che il celibato non è una rinuncia ai legami familiari che equivalga ad un loro disprezzo a favore di una relazione solo con Dio, non è una condanna delle relazioni umane. Anzi, Gesù ha puntato fin dall’inizio alla costituzione di una comunità di discepoli, vincolati intimamente da una relazione interpersonale profonda e specifica, denominandoli Egli stesso in base alla realtà di tale relazione: «non vi ho chiamati servi ma amici» e «non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13-16).
Il testo sul celibato di san Paolo non vuol dire che il celibe non debba vivere nessun’altra relazione profonda oltre a quella con il Signore. Lo stesso Paolo coltiva relazioni personali di forte amicizia con persone concrete e soprattutto con i suoi diretti collaboratori: Timoteo, Tito, Silvano e Luca. Il «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20), non impedisce, anzi promuove in lui i legami di amicizia più profondi.
E gli Atti degli Apostoli ci presentano un modo di vivere ricco di relazioni umane: gli apostoli si muovevano in gruppi o in coppie di discepoli, stabilendo una serie di legami contraddistinti da amicizia e familiarità. Quanto poi a coloro che si sposano, basta ricordare di nuovo S. Paolo: «Ciascuno ha il proprio dono da Dio, chi in un modo, chi in un altro» (1 Cor 7,7). Quindi, anche coloro che scelgono il matrimonio ricevono da Dio un «dono», il «proprio dono», cioè la grazia propria di tale scelta, di questo modo di vivere, di questo stato.
È sempre stato così, sia in Occidente che in Oriente
Contrariamente a quanto spesso si pensa, la scelta celibataria della Chiesa risale addirittura agli apostoli. A. Stickler ha dimostrato che fin dall’inizio i sacerdoti erano uomini non sposati, oppure uomini sposati che ricevevano l’ordine sacro e che, da quel momento, col consenso della moglie (che doveva essere mantenuta a spese della Chiesa) si impegnavano alla continenza, a non usare del matrimonio. È vero che presso certi riti orientali ci sono sacerdoti sposati; ma ciò non fa crescere le vocazioni. Infatti, sia presso gli anglicani e i protestanti, sia presso gli ortodossi e gli orientali, l’immagine del pastore sposato o del prete sposato, anziché favorire, sembra rallentare le vocazioni ed in certo senso anche la loro attrattiva vocazionale; anche presso gli orientali la immagine del prete celibe è spesso più attraente. Ad ogni modo, in Oriente i vescovi sono tenuti al celibato, il che indica che c’è un legame fra il celibato e lo stato sacerdotale: infatti, quando un sacerdote riceve l’ordinazione partecipa del sacerdozio del vescovo.
Del resto Stickler dissipa un’erronea convinzione ancor più diffusa, spiegando che la norma sul celibato o sulla continenza vigeva fin dai tempi apostolici anche nella Chiesa d’Oriente. Solo nel 691, al Concilio Trullano, ci fu il cedimento della Chiesa d’Oriente, per l’interferenza degli imperatori di Bisanzio, che ingerivano nelle questioni ecclesiastiche.
D’altra parte, non esiste a tutt’oggi un matrimonio dei preti in Oriente. Quando si parla di “preti sposati” non si parla di sacerdoti che si sposano, ma di uomini sposati che sono ordinati preti: in Oriente come in Occidente non è mai permesso a un prete di sposarsi. E anche in Oriente un prete sposato, se diventa vedovo, non può risposarsi.
Bibliografia
IL TIMONE – N.59 – ANNO IX – Gennaio 2007 pag. 32 – 33
Riceverai direttamente a casa tua il Timone
Se desideri leggere Il Timone dal tuo PC, da tablet o da smartphone
© Copyright 2017 – I diritti delle immagini e dei testi sono riservati. È espressamente vietata la loro riproduzione con qualsiasi mezzo e l’adattamento totale o parziale.
Realizzazione siti web e Web Marketing: Netycom Srl