Un agile volumetto di Antonio Livi spiega magistralmente il contributo della ragione alla fede. Un testo da leggere per immunizzarsi dal pericolo mortale del fideismo.
Un pericolo mortale insidia il cristianesimo, il suo nome è fideismo. È tanto più pericoloso in quanto non è un’aggressione che proviene dall’esterno della Chiesa, bensì la colpisce dall’interno, dilagando tra i semplici fedeli, ma anche tra sacerdoti, biblisti e teologi. Giustamente Giovanni Paolo II (e prima di lui il Magistero, a partire dal XIX secolo) ha denunciato questo pericolo: «La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza, correndo il rischio di non essere più una proposta universale. È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione» (Fides et Ratio, § 48). Inoltre l’accettazione del Dio della fede deve essere una scelta libera, altrimenti non sarebbe un atto umano, ma solo un automatismo non umano, perciò deve presupporre la ragione: per accettare il mistero con un atto di fede, dobbiamo, almeno, in parte, capire con la ragione di che cosa si tratti. Ancora, le fedi religiose sono molte e differenti. Dunque per vagliarle e individuare quella vera bisogna disporre di uno strumento per giudicare i contenuti delle varie fedi, per sapere che non sono illusioni o autosuggestioni, che sia diverso dal sentimento, e tale strumento non può essere che la ragione. Per questo motivo segnaliamo con una particolare menzione il presente testo (edizione incrementata di un volume del 2002) di Antonio Livi (Ordinario di Logica e Filosofia della conoscenza e Preside della facoltà di Filosofia all’Uni-versità Lateranense), che si inserisce nel solco degli studi che l’autore conduce da alcuni decenni, mettendo in evidenza il compito della ragione umana nei confronti del cristianesimo: 1) conseguire la certezza dell’esistenza di Dio; 2) vagliare la possibilità di una rivelazione divina; 3) individuare i motivi di credibilità di ciò che è narrato nel Vangelo; 4) rendersi conto di quali misteri si debbono e si possono credere.
Di Dio si dà: 1) una conoscenza diretta (anche se mediata dall’inferenza) che solo impropriamente viene detta fede, perché non esige l’adesione alla testimonianza di qualcun altro. È la conoscenza naturale di Dio come causa del mondo, che viene poi 2) rigorizzata dalla conoscenza filosofica, con le sue dimostrazioni dell’esistenza e degli una conoscenza soprannaturale di attributi di Dio. C’è poi 3) Dio, che invece richiede la fede teologale nell’autocomunicazione di Dio. Come dice s. Tommaso, la fede si distingue dall’opinione perché non è una conoscenza incerta, bensì una ferma certezza riguardo alla testimonianza altrui ed è un atto ragionevole, non un salto nel buio. È caratterizzata dalla certezza perché parte da ragioni per credere: la credibilità del testimone e la credibilità di ciò che egli dice. Queste ragioni sono essenziali perché la certezza riguardo a Dio possa essere proposta a chi non è già cristiano, ma anche per portare soccorso a chi è già credente, giacché anche i più grandi santi hanno vissuto periodi di aridità spirituale interiore e di incertezza. In simili momenti la ragione può sostenere la fede e corroborarla, può contribuire a superare i dubbi, a vincere le incertezze, a perseverare, ecc.
Chi crede al Vangelo lo fa perché ha tutte le ragioni per ritenere che esso è davvero una rivelazione divina. Per esempio, l’indagine razionale circa Cristo tiene presenti i risultati conseguiti mediante la filosofia (i presupposti della fede, preambula fidei, che dicono che Dio esiste), acquisisce i motivi di credibilità dell’incarnazione e resurrezione di Gesù, cioè vaglia dapprima la credibilità dei testimoni di Cristo, poi quella del contenuto delle asserzioni dei testimoni, raccogliendo sia una serie di certezze storico-empiriche (ossia tutto ciò che serve all’ac-certamento che Gesù ha dato prova di essere Dio), sia una serie di certezze metafisico-logiche, sulla base delle quali si comprende che le cose che Gesù ha fatto sono razionalmente possibili (non contraddittorie, non assurde). Anche l’eventuale constatazione personale dei miracoli porta alla fede solo perché si deduce razionalmente che Cristo, per poter essere causa dei miracoli, deve essere Dio.
Insomma, come dice Livi sulla scorta di Giovanni Paolo II, la fede è «un atto della ragione, intrinsecamente connesso con altri atti della ragione» (p. 129). Il libro di Livi è un antidoto veramente importante contro il fideismo e lo raccomandiamo ai lettori. È anche impreziosito da bellissime citazioni dai Padri della Chiesa.
RICORDA
«Le grandi decisioni dei Concili antichi […] garantiscono la razionalità della fede biblica, che supera quel che è proprio alla ragione, ma comunque si appella alla ragione e si presenta con la pretesa di enunciare la verità».
(joseph Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli 2003, p. 96).
BIBLIOGRAFIA
Antonio livi, Razionalità della fede nella rivelazione. Un’analisi filosofica alla luce della logica aletica, leonardo da Vinci, 2005, € 18,00, pp. 164.
IL TIMONE – N. 56 – ANNO VIII – Settembre/Ottobre 2006 – pag. 47