Ritratto di Carlo Maria Giulini, grande direttore d’orchestra, recentemente scomparso. Uomo di fede semplice, lineare, limpida.
Nella legge dell’amore, diceva, «trovo tutto ciò che mi serve».
«Alla base dell’arte e quindi anche della musica c’è sempre un valore spirituale»: queste poche, semplici, profonde parole sono il migliore ritratto di Carlo Maria Giulini.
Il grande direttore d’orchestra, il sublime concertatore, morto all’età di novantun’anni il 14 giugno dello scorso anno, solo all’apparenza poteva apparire un uomo appartenente a un’altra epoca. Il tratto signorile, la figura, l’amabile gentilezza, rivolta anche alle persone estranee, lo facevano un personaggio esterno all’imperante star business odierno.
Il suo stile di direzione lo rendeva unico. Negli ultimi anni, prima del ritiro, il gesto si era fatto più raccolto, più intimo, quelle braccia che si univano in un movimento solo apparentemente uguale contenevano tutto l’uomo; «nel momento in cui lei esegue un pezzo lei mette in questo pezzo tutto se stesso – le sue esperienze, gioie, dolori: tutto quanto – ma guai se fosse intenzionale, se diventasse consapevole», amava dire. Lo spettatore veniva rapito non tanto dal movimento o dalla foga espressiva, ma da quegli occhi chiusi, dalla concentrazione, dal movimento della bocca che sembrava recitare una lunga, intensa preghiera. Il tutto veniva accentuato dalla sua figura alta, affilata, ieratica, quasi una rappresentazione vivente di un quadro di El Greco.
La fortuna, in epoca moderna, è che dei concertisti possiamo conservare un ricordo eterno grazie alle registrazioni che hanno prodotto. Anche in questo caso emerge limpidamente l’uomo Giulini. Nulla è lasciato alla ricerca di un facile consenso, ma segue una coerenza limpida e lineare. Mancano infatti registrazioni ed esecuzioni che non possono venir meno nel carnet del bravo direttore; per Giulini questo era impossibile in quanto la musica da lui eseguita era solo ed esclusivamente quella vissuta, sentita come propria. Ne è una riprova un autore da lui profondamente vissuto e studiato come Gustav Mahler; del compositore boemo eseguì sempre solo la Prima, la Nona, il frammento della Decima sinfonia e il Canto della Terra semplicemente perché «(Mahler) lo riconosco completamente nelle sinfonie estreme… una finisce con la vittoria dell’uomo, l’altra con la vittoria dello spirito dell’uomo».
Rispetto ad altri direttori, forse più capaci e talentuosi a livello interpretativo, Giulini ha lasciato ai posteri una testimonianza del suo essere uomo attraverso diverse interviste e un librointervista scritto con il critico musicale Angelo Foletto (San Paolo 1997). In quelle pagine, grazie anche all’intervistatore, emerge l’uomo di fede Carlo Maria Giulini, la sua umiltà. Il ricordo più bello come musicista? «il giorno in cui divenni dodicesima viola dell’orchestra dell’Augusteo di Roma» ed avere così la possibilità di suonare con le grandi bacchette di allora, da Klemperer, a Walter a Furtwangler (non con Toscanini in quanto già in esilio negli Stati Uniti a causa del fascismo).
Per Giulini la fede «è un dono»; infatti «chi ha la fede non soffre meno di uno che non l’ha, ma soffre in un modo differente.
Perché chi ha fede ha il dono dell’accettazione».
Anche di questo il Maestro diede una bella testimonianza, quando si dimise dall’Orchestra di Los Angeles nel 1983 per poter seguire l’amata moglie colpita da emorragia cerebrale, decidendo di ridurre le trasferte all’estero, mai oltre i confini europei: «il mio punto di riferimento dopo la musica è sempre stata la famiglia e questo è un dono di cui ringrazio sempre il Signore».
Lo studio della musica per Giulini era silenzio; poco o nessun ascolto di dischi o registrazioni. Era però un uomo capace di donare amicizia e trasmettere la sua sapienza ai giovani musicisti; ne è stata una riprova il rapporto che creò con l’appena costituita Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi con la quale conduceva delle speciali prove orchestrali.
In questo suo donarsi semplicemente si poteva cogliere l’importanza di un valore che per Giulini aveva un’importanza capitale: l’amicizia. Per il Maestro questo sentimento era: «sperimentare e condividere la gioia altrui: sentire che appartiene anche a me. Commiserare le disgrazie, partecipare ai dolori non è sufficiente. È solo buona educazione». Come non cogliere in queste parole la realizzazione del precetto ama il prossimo tuo come te stesso?
Giulini era un uomo istintivamente buono in quanto «un uomo di fede non può fare del male, semmai può provare a fare del bene».
Le sue interpretazioni erano un atto d’amore per la musica e per il pubblico. Il suo non era un semplice eseguire la partitura, ma un vivere completamente quelle note che «non sono ancora musica: solo un’epifania, una promessa di musica». I brani di cui si faceva interprete diventavano quindi un unicum con la sua persona. Per illustrare il suo coinvolgimento emotivo, la partecipazione del suo animo, Giulini indicava questo coinvolgente rapporto come «un atto d’amore spirituale e collettivo, si compie l’idea della concelebrazione religiosa».
L’alimento di Giulini era la preghiera, accresciuta anche attraverso il rapporto pluriennale con un sacerdote: «io sono credente, quindi c’è il colloquio con Dio. C’è la preghiera che può essere anche una meditazione con sé… e questa è una cosa che fa parte della mia vita: che mi ha sempre accompagnato, mi ha donato serenità e pace».
Una fede semplice, lineare, limpida, quella che ha sempre illuminato la vita del Maestro, nell’intima certezza che: «dal momento in cui agli uomini venne detto di amarsi e perdonarsi gli uni con gli altri, cosa che andava contro la sostanza di tutto il pensiero passato e contemporaneo, il seme del cambiamento era stato gettato.
Cosa contano i miei, i nostri, problemi quotidiani: spirituali, sociali o materiali? In quell’insegnamento trovo tutto ciò che mi serve».
RICORDA
«Io ho avuto la fortuna di nascere e di crescere in una famiglia molto credente, religiosa e praticante. Un papà e una mamma straordinari. Poi ho vissuto il periodo degli studi e in seguito la difficile e terribile esperienza della guerra. La fede mi ha sempre aiutato molto, anche nelle situazioni più difficili. Grazie alla fede anche i momenti di grande sofferenza si vivono sotto un’altra luce, nasce una forma di accettazione, non si rifiuta la sofferenza. Questo non significa soffrire di meno, ma soffrire in altro modo».
(Incontro con Carlo Maria Giulini. Intervista di Mauro Harsch, in
www.medjugorje.ch/giulini intervista.htm.).
IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 54 – 55