Ci ha lasciato in eredità oltre duemila fratelli, prevalentemente laici, impegnati a diventare santi, portando nel mondo lo spirito monastico del loro fondatore. E con loro 160 titoli, tra i quali molti tradotti in diverse lingue.
I giornali hanno parlato di don Divo Barsotti, annunciandone la morte avvenuta lo scorso 15 febbraio, come dell’«ultimo mistico del ‘900».
Che cosa vi era di così importante in don Divo Barsotti?
Chi l’ha conosciuto risponde all’unanimità: egli dava “il senso di Dio”. Dio era Realtà e Mistero nel quale viveva immerso, e lo comunicava.
Nato a Palaia (PI) il 25 aprile 1914, sacerdote diocesano di San Miniato, finisce a Firenze nel dopoguerra su invito del cardinale Dalla Costa, che lo apprezzava per la sua attitudine alla cultura e per il vigore con cui parlava.
Non ebbe mai un ruolo preciso nella Chiesa ufficiale, pur avendo tante doti: saggista, poeta, scrittore, predicatore, studioso, esegeta, padre spirituale… Il magistero di don Divo esigeva una piena libertà di movimento interiore. Emblematico a questo proposito è il titolo di uno dei suoi diari più famosi: “La fuga immobile”: fuga dal mondo, dalla smania di apparire, dai legami con le cose temporali, e immobile, fissi in Dio, fermi nelle intuizioni della sua Parola, ancorati agli eterni principi della sapienza cristiana.
Dopo una breve esperienza eremitica, andò a vivere in una casetta alle pendici di Firenze, che trasformò, con il permesso del vescovo, in piccolo monastero, dedicato a san Sergio di Radonez (1314-1392), un monaco russo di cui aveva per primo studiato la vita. Ivi si stabilì negli anni ‘50 con dei giovani seguaci, e pian piano si raccolse attorno a lui quella che poi sarebbe diventata l’attuale comunità da lui fondata e diretta per tanti anni, la Comunità dei figli di Dio.
Si alzava nel cuore della notte, e cominciava la sua giornata stando per lungo tempo davanti al Signore, nella preghiera.
La sua Messa, poi, era un entrare sommesso e misterioso nell’eterno dialogo tra Figlio e Padre: egli la celebrava con tono commosso, e poteva durare anche ore… tanto non c’era fretta, perché la Messa era semplicemente Tutto. Poi, il resto della giornata, era l’esplicitazione del Mistero celebrato, il vivere eucaristico, nella preghiera, nella pace, nella semplicità, nel lavoro, nello studio, nel ritmo della liturgia delle Ore cantata in gregoriano, nel silenzio.
Ecco perché don Divo fu in fondo un monaco, e suggerì a coloro che gli domandavano una direzione spirituale di essere come dei “monaci nel mondo”, dentro le strutture umane, ma con cuore di monaci, per inondare tutto di preghiera e per offrire tutto al Padre in Cristo.
Affermava di essere stato convertito a questa radicalità da Dostoevskij (per riconoscenza dedicò al grande romanziere russo un suo libro “Dostoevskij, la passione per Cristo”), sapeva tutto sulle esperienze religiose di altre culture, leggeva i poeti, si interessava della storia dei popoli: sentiva che il cristianesimo deve ricapitolare e condurre tutto al Padre.
Ma solo in Cristo e per Cristo, di cui era assolutamente innamorato.
Per questo suo amore a Cristo e alla Chiesa, fu chiamato spesso a predicare, in tutta Italia e nel mondo. Predicò gli esercizi annuali nel 1972 alla Curia Romana e al Papa Paolo VI. Il suo pensiero era comunque rivolto ai laici, tanto che la sua Comunità (attualmente presente in Italia e all’estero) è formata quasi tutta da laici, uomini e donne che vivono nel mondo, sposati e non sposati, il cui principale obiettivo è quello di amare il Signore nella Chiesa e testimoniarlo con una vita di fede, speranza, carità, come monaci laici inviati per le strade del mondo, avendo come mezzi la preghiera, la Scrittura, la sacra liturgia.
I monaci vivono del loro lavoro, testimoniano il primato di Dio su tutto. Per questo don Divo soffrì un poco, verso la fine della vita, per un eccessivo insistere, nei temi della predicazione o nei discorsi degli uomini di Chiesa, sulla socialità, sul bene terreno come obiettivo ultimo, come se la Chiesa dovesse rispondere ai bisogni dell’uomo per la vita quaggiù. «La carità – diceva – non sussiste senza la fede. La fede sola ci introduce nella Realtà. Senza la fede l’atto umano non è che un brancolare nel buio. Non solo tenta invano di raggiungere Dio, ma non raggiunge neppure l’uomo, che rimane chiuso nella sua incomunicabilità». E la fede per lui era l’atto di abbandono pieno e totale ad un Dio che ci ama, a Gesù crocifisso e risorto, nella Chiesa. La pace, certo è importante, ma «la pace di cui tanto si parla può essere anche il paravento di Satana, scriveva nel 1987: si deve volere la verità e il bene, ma la volontà della verità e del bene non sempre favorisce la pace».
Questo era don Divo Barsotti.
Dopo una lunga vita consumata in questo dialogo di amore e di verità, si è spento dolcemente alla veneranda età di quasi 92 anni, contornato dai suoi giovani monaci, mormorando le parole: «Gesù… Gesù…».
IL TIMONE – N. 53 – ANNO VIII – Maggio 2006 – pag. 52