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15.12.2024

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Il dono dell’amicizia
31 Gennaio 2014

Il dono dell’amicizia

 

 

 

 

L’amicizia produce immedesimazione, non è esclusivista, è una relazione almeno inizialmente del tutto libera. In definitiva è un dono divino.
 
 
 
Ho già avuto modo di parlare dell’amicizia (Il Timone n. 42, pp. 32-33), un tema che può essere interessante continuare a sviluppare. Nel precedente articolo avevo spiegato che l’amicizia è uno dei beni più grandi della vita, consiste in un rapporto di benevolenza ed affetto reciproci, di gioiosa condivisione tra uomini buoni, richiede virtù e somiglianza.
Possiamo ripartire proprio dal tema della somiglianza. Avevamo visto che due amici condividono qualcosa che li rende simili e dicevamo che un amico può essermi talmente simile da essere per me come un alter ego, l’altra metà della mia anima, capace di anticipare i miei pensieri e di provare le mie stesse gioie e i miei stessi dolori.
Osserviamo adesso che tra me e un mio amico ci può essere un’immedesimazione talmente profonda da far sì che una parte di me si «trasferisca» in lui e viceversa. Perciò, senza di lui io mi sento incompleto, perché una parte di me vive con lui, come si vede quando un mio amico va a vivere in un’altra città (rendendo impossibili o sporadici i nostri incontri), oppure muore. In tale situazione, mi sento come se una parte di me se ne fosse andata lontana da me stesso, come se fossi incompleto e diviso a metà.
S. Agostino descrive magistralmente ciò, raccontando i propri sentimenti dopo la morte di un suo carissimo amico: «L’angoscia avviluppò di tenebre il mio cuore. Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia città, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo in comune con lui, la sua assenza aveva trasformato in uno strazio immane. I miei occhi lo cercavano ovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo conteneva […]. Io sentii che la mia anima e la sua erano state un’anima sola in due corpi; perciò la vita mi faceva orrore, poiché non volevo vivere a mezzo, e perciò forse temevo di morire, per non fare morire del tutto chi avevo molto amato» (Confessioni, IV, 9).
In questa autointrospezione di Agostino si coglie benissimo un’ambivalenza: il sentirsi incompleto perché la morte dell’amico gli ha fatto perdere una parte fondamentale di sé (quella che si era «trasferita» presso il suo amico) e quindi il desiderio di morire; ma anche il desiderio di non morire, perché in lui sopravvive una «parte» del suo amico, che morirebbe del tutto se anche Agostino morisse.
Ma c’è un’altra ambivalenza dell’amicizia.
Da un lato la vera amicizia non è esclusivista, non è gelosa (Lewis). Se io sono veramente amico di qualcuno e gli voglio davvero bene, desidero per lui quel bene che è l’avere il maggior numero possibile di amici. Inoltre, in ciascuno dei nostri amici ci sono degli aspetti preziosi che solo un altro amico sa mettere in luce, qualcosa che solo un altro sa far risaltare. Così, se ho due amici e uno di loro parte o muore, io non solo perdo quell’amico che è partito o morto, ma perdo anche quella parte dell’amico rimasto che solo l’altro amico sapeva far emergere. Dall’altro lato, però, è possibile avere solo pochi amici, perché (Aristotele) l’amicizia esige sia la somiglianza, e coloro che ci sono simili sono pochi, sia la condivisione di vita, ed è materialmente possibile condividere il proprio tempo solo con alcune persone.
Un’altra proprietà dell’amicizia la suggerisce ancora Lewis: a differenza di altre forme di amore (per es. l’amore paterno, materno, filiale e parentale in genere), l’amicizia è una relazione inizialmente del tutto libera.
Mentre io ho il dovere fin dall’inizio di amare mio padre, mio figlio, ecc., l’inizio di un’amicizia è scevro da qualsiasi obbligo e coercizione: nessuno può impormi di essere suo amico, né io glielo posso imporre. Anzi, un’amicizia imposta sarebbe una contraddizione in termini, perché l’amicizia è un atto volontario, libero e gratuito, a cui nessuno é tenuto nei miei confronti: l’amicizia è un dono, un beneficio grazioso che l’altro ci fa, perché nessuno, prima che un’amicizia sia germinata, ha il dovere di esserci amico.
Nemmeno l’amore eterosessuale è inizialmente libero quanto l’amicizia, perché è vero che noi non abbiamo il dovere di amare nessuno nella forma di questo amore, ma è anche vero che siamo biologicamente influenzati (sebbene non determinati) dalla struttura complementare dei due sessi; viceversa nell’amicizia non sussiste nemmeno quest’influenza.
Non concordo più con Lewis quando ritiene che l’amicizia resti continuamente e completamente libera ed elettiva; al contrario, una volta che un legame amicale esiste, esso comporta dei doveri (sia pur sentiti spesso come lievi, o addirittura osservati così spontaneamente da non avvertirne nemmeno l’esistenza): se un mio amico non sta bene, io sono tenuto ad aiutarlo, se posso. Ma questo non toglie l’iniziale libertà dell’amicizia.
Nel mio precedente articolo (a cui rinvio) avevo già spiegato che per avere amici dobbiamo coltivare progetti e ideali e cercare di essere virtuosi. Notiamo ora che queste due cose che sono propizie all’amicizia, a ben vedere, non si propongono come fine l’amicizia stessa. Quest’ultima, dunque, scaturisce da esse come conseguenza gradita, ma non direttamente perseguita. Da ciò e dalla libertà dell’amicizia discende allora un paradosso: per quanto io mi sforzi di avere amici, il fatto di avere amici non dipende del tutto da me.
1) Perché se io agisco principalmente per avere degli amici, il mio non è un agire gratuito, come si conviene ad un vero amico (che vuole il bene dell’altro), bensì è interessato. Io posso sperare e legittimamente desiderare la corrispondenza da parte dell’altro (anche perché io voglio il bene dell’altro e la corrispondenza da parte dell’altro è per lui un bene), ma se agisco principalmente per procacciarmi degli amici, la mia motivazione non è innervata dalla benevolenza, bensì è autointeressata.
2) Perché l’amicizia è un dono dell’altro e io non posso sforzarmi di ottenere un dono, né posso esigerlo, perché un dono esigito sarebbe una contraddizione in termini, tutt’al più sarebbe un debito: se io ho degli amici è perché essi mi hanno scelto liberamente.
3) Non dipende neppure del tutto dai miei stessi amici (Lewis): in realtà neanche loro mi hanno scelto del tutto autonomamente.
Qualche anno di differenza nella data di nascita, qualche chilometro di distanza tra le nostre case, la scelta di un’altra scuola, università, gruppo sportivo, ecc., avrebbero rimosso le condizioni in cui sono iniziate le nostre amicizie, così come l’aver parlato di quell’argomento che ha fatto scoccare la nostra amicizia, l’esserci incontrati in quel posto, la somiglianza tra di noi, ecc., sono eventi che sarebbero potuti non accadere, facendoci restare ignari, o almeno indifferenti, circa l’esistenza di coloro che sono divenuti nostri amici. Insomma, Qualcuno ha fatto sì che fra innumerevoli persone noi ci incontrassimo e ci scegliessimo: Qualcuno ci ha fatto dono di quel dono che è l’amicizia che gli altri ci donano.
Così, l’amicizia conferma la profonda suggestione di Simone Weil: «i beni più preziosi non devono essere cercati ma attesi».

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Giacomo Samek Lodovici, L’utilitarismo e i paradossi dell’amicizia-dono, in La necessità dell’amicizia, Atti del Convegno di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce, Armando, in corso di pubblicazione.
Tommaso d’Aquino, Commento all’Etica Nicomachea di Aristotele, ESD, 1998, pp. 227-431.
Norberto Galli, L’amicizia dono per tutte le età, Vita e Pensiero, 2004.
Clive Staple Lewis, I quattro amori: Affetto amicizia eros e carità, Jaca Book, varie edizioni.

 

 

 
 
 
IL TIMONE – N. 48 – ANNO VII – Dicembre 2005 – pag. 32 – 33
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