Una domanda: la ricerca esasperata della sicurezza ad ogni costo – caratteristica della nostra epoca – nasconde talvolta una pretesa dell’uomo di farsi come Dio?
Di controllare totalmente la propria vita?
Spunti per una riflessione.
“Una tragedia che si poteva evitare”. Quante volte abbiamo sentito questa espressione: praticamente non c’è incidente o catastrofe naturale, che non si senta ripetere. E sempre più ossessivamente, di pari passo con la crescita nella nostra società del mito della sicurezza. Nulla da eccepire ovviamente davanti a misure che cerchino di tutelare la vita umana, siano esse i miglioramenti nelle strutture sanitarie o i provvedimenti contro la criminalità, la costruzione di auto che offrano maggiori garanzie di incolumità o più in generale l’adozione di strumentazioni sofisticate a tutela di chi viaggia. Anzi, è ovvio che questo genere di “progresso” va incentivato. Ce lo impone il dovuto rispetto e amore alla vita umana che ci è stata donata da Dio.
Ma ciò che sta accadendo nella nostra società occidentale è qualcosa di segno ben diverso. La sicurezza è diventata un’ossessione, una sorta di mito che scatena la ricerca accanita e rabbiosa del “colpevole” ogni qualvolta accada un incidente. Che si tratti delle conseguenze di un terremoto, di una alluvione o di un disastro aereo poco importa: certamente qualcuno non ha fatto il suo dovere. Mai che si provi a riflettere sulla semplice verità per cui anche tutta la perizia e l’attenzione dell’uomo non cancellerà totalmente il rischio della morte, perché questo è intimamente connesso alla vita stessa.
Un motivo per questo accanimento c’è: il mito della sicurezza è strettamente legato alla pretesa dell’uomo di controllare pienamente la vita, in altre parole di farsi Dio. Così tutti noi, immersi in questa cultura che ha cancellato Dio e sostenuti dal progresso tecnologico, viviamo in questa illusione di un mondo sicuro, in cui nulla ci può e ci deve accadere. Così, ad esempio, per strada andiamo veloci oltre ogni limite ragionevole perché “tanto abbiamo un’auto sicura”. E se invece qualcosa di imprevisto ci accade – e accade molto più spesso di quanto vogliamo credere – non mettiamo in discussione il nostro modo di vivere e di pensare, ma andiamo immediatamente a caccia del colpevole.
In altre parole, la sicurezza si associa paradossalmente all’assenza di responsabilità: agire secondo il proprio istinto, il proprio interesse e il proprio piacere senza pagarne le conseguenze. È una concezione che ha portato a un uso nuovo del concetto di “sicurezza”. Si pensi ad esempio al “sesso sicuro”, che implica il diritto a fare sesso con chiunque e quando lo si voglia senza rischiare malattie, gravidanze indesiderate e così via. In alcuni casi si arriva addirittura al rovesciamento del significato della parola “sicurezza”. A questo proposito mi ha molto colpito alcuni mesi fa il caso dei proiettili all’uranio impoverito sparati dalle forze Nato in Kosovo. La vicenda era emersa perché si sospettava che alcuni soldati italiani, di ritorno dalla missione, fossero morti come conseguenza dell’esposizione all’uranio. Per settimane sui giornali italiani si innescò una furiosa polemica sulla “sicurezza” di tali proiettili. La cosa era curiosa perché in guerra, piaccia o no, normalmente il concetto di sicurezza viene legato all’efficacia nel colpire l’obiettivo nemico. In questo caso invece chi di queste bombe era stato destinatario era praticamente ignorato, e la sicurezza aveva a che fare soltanto con la salute di chi le bombe le tirava. Evidentemente oggi in guerra la sicurezza consiste nello sparare e sganciare bombe senza rischiare nulla.
Ma c’è un caso ancora più eclatante che dimostra come il concetto di sicurezza sia cambiato. Oggi infatti si parla molto di “maternità sicura”, addirittura c’è un programma che porta questo nome ed è stato promosso già nel 1987 da diverse agenzie dell’Onu (tra cui Banca Mondiale, Unicef e Organizzazione Mondiale della Sanità).
Ebbene, secondo il buon senso, in questo caso si dovrebbe intendere “sicurezza” nel senso che devono essere garantite tutte le migliori condizioni possibili per la salute della madre e del bambino. E invece no: nel linguaggio internazionale la “maternità sicura” include – e anzi promuove – l’aborto (definito a sua volta “sicuro”), ovvero l’eliminazione del bambino. Tanto che alla Conferenza del Cairo del 1994 su popolazione e sviluppo, nel cui Programma d’Azione un intero capitolo è dedicato all’“lniziativa per la maternità sicura”, è stato respinto un emendamento della Santa Sede che chiedeva di specificare che questa iniziativa non implica il riconoscimento dell’aborto.
Ancora una volta dunque la sicurezza – nel linguaggio che si è affermato nella nostra società – ha a che fare con la pretesa dell’uomo di controllare totalmente la vita. Ma è una follia che si ritorce contro di noi perché ci impedisce di riconoscere il rischio e i pericoli insiti nelle nostre azioni, e togliendoci la responsabilità ci rende particolarmente vulnerabili. Così la presunta “sicurezza” da una parte si risolve con la sopraffazione di un individuo o di un gruppo di individui sugli altri (vedi aborto e guerra), dall’altra genera maggiore insicurezza, come nel caso del sesso. Infatti l’uso del preservativo (a cui in fondo si riduce il concetto di “sesso sicuro”) non elimina i rischi di contagio o di gravidanza, semplicemente li riduce. Ma ingenerando la sensazione di sicurezza, incentiva i rapporti a rischio con conseguenze immaginabili.
Lo scossone più forte a questa nostra mentalità è indubbiamente venuto con l’attacco terroristico dell’11 settembre a New York e Washington: lì, soprattutto per gli americani, si è frantumato il mito dell’invulnerabilità e della sicurezza della nostra società. Ma se per molti questo ha voluto dire iniziare a vivere nella paura, per molti altri è stato riscoprire – o rafforzare la coscienza – che la vita è un dono di Dio e che solo in Lui sta la nostra sicurezza. Le testimonianze di fede vera che ci sono arrivate dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre devono essere di insegnamento per tutti. È il primo passo per ricostruire la nostra società su fondamenta più solide.
RICORDA
“Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste sa infatti che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt, 6, 25-33).
IL TIMONE N. 17 – ANNO IV – Gennaio/Febbraio 2002 – pag. 16 – 17