di Caterina Giojelli
«su Tempi»
«Così le mie radici aeree affondano nei barattoli, nei liquori, nelle piante del terrazzo, nei maglioni e coperte con i quali vorrei irretire il mondo, nel freezer: perché nella vita costruita a tessere mal tagliate, nella vita a mosaico (come quella di tutti, e più delle donne) la casalinghitudine è anche un angolino caldo». Insomma, l’Istat fotografa il tramonto dell’era delle casalinghe, i giornali si sperticano nell’apologia dell’uomo che si occupa della casa permettendo al partner di realizzarsi nel lavoro, e a noi sfugge il senso della perdita di quell’angolo eternamente mutabile, dove la donna trova conferma del proprio destino fosse anche per il desiderio di superarlo, dove ogni istante reinventa l’unico sconfinamento a lei possibile, reinventare per non rimasticare, «reinventare per non mangiarsi il cuore».
Era il 1987 quando Clara Sereni apparve in libreria con Casalinghitudine, allora nessuno poteva immaginare che quel libriccino letto e benedetto da Natalia Ginzburg per Einaudi avrebbe trovato posto a metà strada fra il soggiorno e la cucina di milioni di italiane, adornato da ditate unte o da schizzi di pomodoro, o che quel titolo sbilenco avrebbe conquistato in fretta un posto nei dizionari. Un romanzo di ricordi, ricette, riflessioni intorno alla generazione protagonista tra gli anni Sessanta e Ottanta, dove tra tavolo, sedie e cucina, va animandosi lo scontro tra padri e figli, si consumano prove di coraggio e di energia di nonne e madri alle prese con la tradizione e l’afflato rivoluzionario, i vivi e i morti, gli amori e i disamori di una famiglia eccellente.
Scrittrice e traduttrice,«figlia di Emilio Sereni, uno dei più importanti dirigenti del Pci delle origini (fu nel gruppo ristretto che decise con Valiani, Longo e Pertini che Mussolini dovesse essere fucilato), già compagna dello sceneggiatore Stefano Rulli con cui ha avuto Matteo, un ragazzo autistico che ha costituito non solo la ragione principale della sua vita, ma la fonte di ispirazione primaria della sua scrittura, intrisa allo stesso tempo di pace e dolore. A domanda, una volta, ha risposto: «“Sono una madre handicappata”», racconta Giorgio Dell’Arti di Clara Sereni, debitrice verso un certo femminismo orgoglioso di «riconoscere e riconoscersi, attente come siamo a non sprecare, a non tagliar via del tutto, mai, le nostre radici. Soprattutto quelle che traggono dalle donne alimento e saperi», scrive Sereni. E lo scrive oggi, nella nota del manuale-manifesto rieditato dopo trent’anni da Giunti, in un momento in cui l’alito gelido delle statistiche e della burocrazia stiepidisce ogni “casalinghitudine”, quell’angolo caldo, «desiderio nostalgico e creativo di un mondo in cui, come diceva zia Ermelinda, “ogni cosa ha il suo posto, e ogni posto la sua cosa”».
Quei fagioli nel Sessantotto
«L’Italia è tappezzata di manifesti con donne discinte e ammiccanti. In tv i modelli sono quelli della casalinga o della donna seminuda. Da lì alla violenza, il passo è breve. Se da donna passa ad oggetto, il messaggio è chiaro: di un oggetto puoi fare quello che vuoi». Così Laura Boldrini in una delle sue primissime apparizioni da presidente della Camera a un convegno sulla violenza sulle donne a Roma: poche parole ad esprimere la presunzione di colpevolezza di una categoria che se cinquant’anni fa veniva stigmatizzata dalla Mistica della femminilità di Betty Friedan, oggi, al pari della velina non merita difese o invettive culturali, tutt’al più infelici reprimende morali.
Sono 7 milioni e 338 mila, snocciola il Rapporto Istat “Le casalinghe in Italia”, oltre mezzo milione in meno (518 mila) rispetto a dieci anni fa, hanno un’età media sui 60 anni, una su dieci vive in condizioni di povertà assoluta, il 74,5 per cento di loro possiede al massimo la licenza di scuola media inferiore, poco più della metà non ha mai svolto attività lavorativa retribuita nel corso della vita. Non dice, il Rapporto Istat, che a prescindere da qualunque ragione le trattenga a casa, nel lavoro da loro svolto e calcolato in 49 ore a settimana (2.539 ore l’anno, senza considerare ferie) va dispiegandosi ogni odore di cura e una qualche ricchezza che tiene a bada il mondo con continue invenzioni, strategie di sopravvivenza, per legare a sé persone e cose.
Chi lo sa se vi sia in questa fetta di popolazione la stessa coscienza di Sereni, per cui la casa, «abitudine, solitudine, negritudine», si è fatta radice vistosa e assorbente, certo è che nell’impossibilità di abbandonarla (la casa, e chi la abita), in ogni fondo di pignatta, rammendo e credenza in bell’ordine, nei ripiani della cucina traballanti sotto il peso dei barattoli, va allenandosi al quotidiano un’umanità indomabile alle puzze, al degrado, alla frantumazione, al pianto accorato e terribile di un bambino che ha perso qualcosa. Casa, dove «quel che arriva a tavola, si mangia», come ammaestra in Casalinghitudine l’ingombrante nonna Alfonsa, sorella brutta di una bellissima zia Mela che odorava di colonia e sapone di Marsiglia impartendo lezioni di scale e solfeggi, Burgmüller Clementi e Beethoven, mentre lei, nonna Alfonsa allevava polli in Israele, vestiva di nero come una contadina, portava calzini e scarpe da uomo e aveva usato la sua esistenza per essere coraggiosa, per affrontare le scelte dei suoi figli, per accettarne la morte.
Ecco cosa c’è e perché leggere o rileggere il manuale-manifesto di Sereni, ci sono le donne; ma c’è anche la minestra dei sette grani, emblema della battaglia e della maternità. Ci sono i fagioli che nel Sessantotto diventano una bandiera per l’autrice alle prese con la verifica di un sogno e la politica, la zuppa di piselli in cui si mischiano lacrime impotenti e desiderio di agio, di superfluo e di bello. Ci sono la panna e le sottilette della madre di Massimo, terreno del contendere tra una casalinghitudine ragionevole e una casalinghitudine dichiarata, aggressiva, caotica, pervasiva.
«Odiavo l’aglio, odiavo i però»
C’è la zuppa di cipolle grazie alla quale riscoprire la ferocia vendicativa della bontà, e c’è una frittata di zucchine, immagine di una frattura storica: il ricordo del padre intento a discutere fittamente con Pietro Nenni sulla spiaggia di Formia. Molto della famiglia Sereni è già nei libri, come la storia della madre Xenia, figlia apolide di un socialista rivoluzionario e di una turco-greca che aveva portato le sue brave bombe nella borsa della spesa; o quella appunto del padre Emilio, consegnato alla storia e che “però” meditava con la forchetta a mezz’aria, «e quel “però” incombeva come una spada di Damocle, abituale condanna anche di tutti gli sforzi culinari di mia madre. “Però manca qualcosa… ecco, dovevi metterci magari un battuto di aglio…” Odiavo l’aglio, odiavo i però».
C’è tutto questo nel libriccino di Clara Sereni, c’è il tentativo di appropriarsi del passato per inventare un futuro. Nel vuotare i posacenere, sprimacciare i cuscini, raccogliere i giochi del figlio, stendere il bucato e ritirarlo, attaccare i bottoni, togliere le incrostazioni di calcio dal ferro, affettare l’arrosto, grattugiare il parmigiano, c’è la gestazione tranquilla di un’antiepica collettiva. Nella quale 7 milioni e rotti di donne continuano a riconoscersi e riconoscere un angolino caldo, una memoria della propria vita che nessun maschio docente di “stirologia ed epistemologia del bucato” o di “economia domestica” (sono i corsi promossi dalla glamourissima Associazione Uomini Casalighi), nessuna statistica Istat, né reprimenda del presidente della Camera, impegnata a riproporre modelli positivi alla Nilde Iotti (e con lei «l’urgenza di superare un modello di famiglia concepita esclusivamente in funzione dell’“accasamento” delle donne, della procreazione dei figli, della trasmissione del patrimonio»), potrà, vivaddio, stiepidire. Rischieremmo altrimenti di perderci il sugo della storia, così crudo e impresentabilmente conservabile in freezer, ma bastano due minuti nel frullatore e poi giù sulla pasta, a rifare estate nel cuore più freddo dell’inverno.