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Quel che indossiamo, come dice Pavel Florenskij, è il megafono del corpo e dell’anima
NEWS 16 Maggio 2017    

Quel che indossiamo, come dice Pavel Florenskij, è il megafono del corpo e dell’anima

di Stefano Chiappalone
sul sito di «Alleanza Cattolica»

 

La moda esiste da quando esiste l’uomo. Da secoli, da millenni, fino ai nostri giorni, uomini e donne comunicano mediante l’abbigliamento: alla funzione materiale del vestito (coprirsi dal caldo e dal freddo) e a quella morale (custodire il pudore), si affianca da sempre quella terza finalità che il ven. Papa Pio XII (1939-1958) indicava come «decoro» nel senso che «risponde all’esigenza innata, dalla donna maggiormente sentita, di dar risalto alla bellezza e dignità della persona, coi medesimi mezzi che provvedono a soddisfare le altre due». Questa dimensione estetica del vestito è multiforme, come spiegava il pontefice: «ad esso la gioventù chiede quel risalto di splendore che canta il lieto tema della primavera della vita ed agevola, in armonia coi dettami della pudicizia, le premesse psicologiche necessarie alla formazione di nuove famiglie; mentre l’età matura dall’appropriato vestito intende ottenere un’aura di dignità, di serietà e di serena letizia» (Discorso all’Unione Latina Alta Moda, 8 novembre 1957).

In altre parole, il vestito è il primo messaggio estetico che inconsapevolmente comunica chi siamo, a noi stessi e agli altri: ogni mattina aprendo l’armadio, abbinando capi e colori, scegliamo cosa dire di noi; non tutto, certamente, ma molto e per tutta la giornata – a differenza della buona musica o di un’opera d’arte o di una bella tavola, che occupano la nostra attenzione solo in dati momenti. Nel Medioevo i diversi capi di vestiario ci avrebbero rivelato anche mestieri e professioni; oggi accade più di rado, ma sempre l’abbigliamento rivela una personalità, talvolta caratterizzata da ordine, armonia, eleganza, oppure seduzione, talaltra da trasandatezza o ribellione. E pur vivendo in un’epoca di “crisi” della divisa, possiamo dire, però, che ciascuno finisce per assumerne una propria: le persone che conosciamo hanno tutte un modo di vestire più o meno riconoscibile – al di là di casi eclatanti, come l’imprenditore Steve Jobs (1955-2011), che si dice avesse centinaia di maglioni dolce vita neri (anche d’estate?), con funzione allo stesso tempo pratica (limitare il decision fatigue mattutino) e soprattutto identificativa. Difficilmente vedremo l’amico che veste “classico”, con un paio di jeans strappati; mentre il ragazzino dai capelli “a cresta” e i pantaloni in stile “casa allagata” non indosserebbe neanche sotto tortura una giacca o una cravatta – peccato, però: l’abito non solo comunica, ma ci plasma, e tutti possono migliorare… Il potenziale comunicativo dell’abito è evidenziato in negativo dall’uniforme dei prigionieri, la cui condizione è sottolineata dal non poter scegliere come vestirsi.

Al contempo non tutte le uniformi sono…uniformi! Se quella dei detenuti è una “moda piatta” (forzatamente) e quella attuale è una “moda liquida” – il cui minimo comun denominatore consiste, cioè, nell’assenza di elementi comuni – almeno nell’ambito ecclesiastico e militare resta in gran parte valida quella “moda organica”, tipica di una gerarchia viva, visibile nei dipinti medievali che identifica ogni categoria, o status, dall’abbigliamento, non per standardizzare, bensì per esaltarne e ricordarne la funzione. L’abito del militare parla, dicendoci se è un soldato o un carabiniere o un paracadutista e indicandocene il grado. Così l’abito del sacerdote, del vescovo, del cardinale: a tale proposito ricordo un pretino molto anziano, dall’abito clericale semplice e dimesso e una gran croce pendente al collo a testimonianza di una vita consumata e di una fede testimoniata a caro prezzo tra le “carezze” del comunismo, come mi descrisse in un paio di colloqui che ebbi con lui. E provai una certa commozione – e sano orgoglio per averlo conosciuto – vedendolo in tv qualche tempo dopo, cambiato d’abito e rivestito di rosso: era il cardinal Ernest Simoni e quella porpora che indossava parlava ancora di lui, del sangue versato quale martire vivente del regime comunista albanese.

L’abito parla, grida chi siamo, anche a chi non ci conosce. Anzi, chi non ci ha mai visto né sentito parlare, intuisce qualcosa della nostra personalità proprio dal nostro modo di vestire. L’abito ci esprime e ci plasma, nella misura in cui definisce il nostro ordine (o disordine) interiore, i nostri sentimenti e atteggiamenti. Nel suo celebre saggio Le porte regali (trad. it., Adelphi, Milano 2009), lo studioso e sacerdote russo Pavel Aleksandrovič Florenskij giunge ad affermare che «“La carne e il sangue non ereditano il Regno di Dio”, ma il vestito eredita» (p. 131), fino a definirlo «un megafono che proclama e amplifica la parola della testimonianza, pronunciata intorno alla propria idea dal corpo» (p. 132). E, per concludere con la propria idea del corpo, sarà un caso che proprio ai nostri tempi si vada diffondendo quella moda unisex che vorrebbe eliminare dall’abito la primordiale e complementare distinzione tra linee maschili e femminili, per adattarsi ad un corpo indistinto? Se «la bocca parla dalla pienezza del cuore» (Mt 12, 34), le “parole” che fuoriescono dal nostro armadio esprimono in qualche modo, nel bene e nel male, la condizione spirituale dei singoli e delle società.