Da due anni lavoro in una scuola di suore. Nessuno mi aveva detto che fare il professore era una questione di vita e di morte. Uno pensa al pompiere, ad altri mestieri. Poi J. si è tolta la vita, un pomeriggio della scorsa settimana. Sapevo che disegnava, ci ho scambiato due parole, era chiaro dalla capigliatura eccentrica e dalla quantità di orecchini che c’era qualcosa che non voleva contenere.
Le suore anziane scendono ogni mattina dalle stanze per visitare i corridoi con entusiasmo. Una, a gennaio, l’ho sentita dire a un ragazzo: «Per fortuna sono finite le vacanze di Natale, perché senza di voi in questa casa c’è troppo poco rumore». La convivenza è uno scambio: le religiose danno un bagliore mai invasivo, ricevuto nelle adorazioni e col rosario; gli studenti ricaricano i muri di vitalità e punti interrogativi. E allora cosa si è inceppato, quel giorno ancora così vicino, in cui J. ha fatto un salto nel silenzio e nel mistero al posto loro?
Fare il professore, certi giorni, è peggio del medico della Croce rossa: l’altra mattina sentivo fischiare i proiettili, ma non avevo un giubbino. Ventisei sguardi affilati di ragazzini. E io, consapevole di stare in posizione di comando: seduto in cattedra, i voti dalla parte del manico, la penna in mano; ma nessuna soluzione in più di loro.
In quella occasione, io e i miei studenti, abbiamo scelto di non parlare, ci siamo persi a fissare la parete alle mie spalle. C’era l’orologio da due mesi senza pile, ovvero il tempo passato insieme; la lavagna che simboleggia ogni nozione; la procedura di evacuazione che quando serve, però, è incapace di salvare.
Poco a destra, Cristo in croce che agonizza, come tutte le mattine da settembre. È stato paziente, bisogna dire. Pure volendo, non se ne poteva andare, con quei chiodi. Sembrava sempre in attesa, invece eravamo noi che lo aspettavamo, mancava l’attimo opportuno. Benvenuto unica porta del futuro, la sola cosa che non crolla di quel muro.