Il mirabile saggio di padre Cornelio Fabro (da L'avventura della teologia progressista, Milano 1974, Rusconi) sul valore del celibato sacerdotale in Kierkegaard, riproposto da Vigiliae Alexandrinae
Qui conviene allegare la testimonianza dello scrittore religioso più tormentato e profondo del secolo scorso, Søren Kierkegaard, il quale, specialmente nei Diari della maturità, ha fatto la diagnosi più cruda e realista della decadenza religiosa del cristianesimo nel mondo moderno. A suo avviso il pastore, nel protestantesimo con moglie e figli, è il primo responsabile della degenerazione del cristianesimo, perché da una parte si trova legato al governo da cui dipende per la prebenda (Levebröd) e dall’altra parte è solidale con la «cristianità stabilita» che si è adagiata al mondo, ingolfata negli interessi di questa vita: perciò il pastore non è colui che si trova allo sbaraglio, in alto mare (n. 1903), nell’impegno assoluto per l’Assoluto.
Essere e fare il pastore è diventato allora nel protestantesimo una semplice sistemazione economica (Naeringsvej) per vivere nel cantuccio di un presbiterio al sicuro dai rischi della vita. Perciò i pastori sono incapaci della vera religiosità (n. 893; vivono come una élite, isolati dal popolo (n. 1519), ed escludono i poveretti dalle consolazioni del cristianesimo (n. 1971; non sono più i padri spirituali delle anime (n. 2055), ma predicano «oggettivamente» il cristianesimo (n. 2849), vivendo per proprio conto nell’eudemonismo (n. 2931), ingolfati nelle faccende di famiglia e nelle cose del mondo. Questa è la più grande distanza possibile dal cristianesimo (n. 2686). Nell’ultima polemica scatenata nel 1855 contro Mynster, che era il capo e simbolo della cristianità stabilita, Kierkegaard tacciò i pastori di «cannibali» (n. 3312), «animali» (n. 3316)…, che impediscono agli altri di entrare nel Regno dei cieli (n. 3173).
A suo avviso, il pastore nel protestantesimo è uno «spostato», l’esistenza del pastore è dal punto di vista cristiano una cosa fuori posto: «Questo non lo intendo soltanto nel senso che tutta la sua vita non si può dire davvero una imitazione di Cristo. No, io ho di mira specialmente il fatto che egli è un impiegato governativo. Quale controsenso allora il predicare un regno che “non è di questo mondo” e che a nessun costo vuole essere di questo mondo?! (Gv. 18, 26). E il fatto che egli sia impiegato governativo è causa di una confusione così fondamentale e influisce così profondamente» (n. 3296). E nel testo seguente il pastore è indicato come «il più infelice di tutti gli esseri», malgrado l’opinione comune in contrario: «Spesso si sente dire che essere pastore, specialmente pastore di campagna, deve essere la più piacevole delle esistenze. D’altra parte si sente spesso questo grido: che i pastori sono gli uomini più irreligiosi, ipocriti, ecc.: dunque, allora, i più infelici. Il mio parere è che quello che noi intendiamo per pastore è il più infelice di tutti gli esseri. Perché, che cosa è un pastore? Un pastore è un uomo, completamente alla stregua di tutti noi bravi uomini (ma neanche di più), il quale ora, per essersi obbligato con giuramento a un ideale così alto come è il nuovo Testamento, mette tutta la sua vita nella autocontraddizione più penosa; egli porta cioè per tutta la vita una coscienza gravata, non di qualcosa di passato ma di una realtà presente e continua, dalla quale neppure la morte lo può liberare e che egli poi alla morte prende con sé per la resa dei conti» (n. 3297). Poco prima infatti aveva accusato i pastori di essere i responsabili del quietismo pratico e della rinuncia alla imitazione di Cristo nella cristianità, «…dove tutti sono cristiani, dove esistono mille pastori giurati dai quali, al massimo per tre quarti d’ora la domenica, i fedeli imparano che il cristianesimo è rinuncia alle cose terrene» (n. 3295).
Di qui procede anche il giudizio drastico di Kierkegaard su Lutero e sul suo matrimonio, che alle volte egli blandamente interpreta come una protesta contro le esagerazioni dell’ascesi monastica e che perciò approva come «atto di risveglio» e come gesto simbolico di sfida all’ordine stabilito (n. 2601), ma poi e più spesso lo accusa come responsabile della confusione in cui la Riforma ha precipitato l’uomo. Lutero infatti ha ridotto il cristianesimo a eudemonismo, rifiutando l’imitazione di Cristo e combattendo il concetto di verginità (n. 2914), e così ha riportato il cristianesimo al giudaismo (n. 3102). Lutero neppure capisce quello che poteva essere il significato del suo gesto: «Invece di questo, Lutero si mette a capo di tutto quel brulicame di uomini prolifici, di questi stalloni i quali, fidandosi di Lutero, credono che faccia parte del vero cristianesimo lo sposarsi» (n. 2932).
Non sorprende allora che alla fine il giudizio di Kierkegaard su Lutero e sulla «svolta antropologica» da lui prodotta nel protestantesimo, diventi nettamente negativo e quello sul cattolicesimo invece nettamente positivo. Egli infatti fa l’elogio del clero celibe e del cattolicesimo, che esige dai suoi preti il celibato come garanzia dell’autenticità della loro missione e della trascendenza e libertà del cristianesimo. Il celibato infatti costituisce l’ideale nella vita dello spirito ed è necessario nei punti critici per la storia del genere umano (n. 1105), specialmente quando si tratta di far riaccettare il cristianesimo (n. 1534). Quando il non sposarsi sarà inteso in senso giusto, la religione avrà sempre bisogno di uomini celibi, specialmente ai nostri tempi, e questo spinge Kierkegaard ad auspicare nientemeno il ristabilimento degli antichi Ordini religiosi «…per avere ancora dei preti, ossia uomini che attendano unicamente alla predicazione» (n. 1638). E a questo punto, poiché a Kierkegaard non faceva certamente difetto la logica, egli si appella direttamente al cattolicesimo, il quale «…vide giustamente che conveniva che il clero appartenesse il meno possibile a questo mondo. Per questo favorì il celibato, la povertà, l’ascesi, ecc. Questo è perfettamente giusto, fatto apposta per levare al medio [cioè l’intermediario fra l’uomo e Dio] l’egoismo». Ed ecco allora, conclude, perché «… noi protestanti abbiamo un clero completamente mondanizzato: funzionari, persone di rango, uomini con moglie e bambini, schiavi come mai nessun altro di tutte le chiacchiere della mondanità» (n. 3084). Di qui anche il grido di risveglio: «Indietro al chiostro, da cui evase Lutero!» (nn. 2885, 2917), e il riconoscimento che «il chiostro era assai meglio della cristianità attuale» (n. 2819) e che il cattolicesimo ha sempre qualche cristiano «in carattere» (n. 2867).
Ecco perché Kierkegaard denunzia alla fine che il mondo ha vinto in Lutero in quanto si è assunto il programma di «rendere la vita più facile» e di «togliere i pesi» (n. 1737). Che cosa ha fatto in sostanza il protestantesimo, abolendo il chiostro, se non buttarsi in braccio alla mondanità e alla politica (nn. 1596, 2948)? Mentre i cattolici pregano la Vergine madre di Dio (n. 93), il protestantesimo non ha forse messo sul trono la donna terrena (n. 2889)? E non ha abolito la canonizzazione cattolica degli asceti e dei martiri per canonizzare i titolari della corporazione dei filistei (n. 2367)? In sostanza, il protestantesimo ha ribassato sull’esigenza cristiana e non mostra più che il cristianesimo è l’assoluto (n. 2973) e il «paradosso» che dà scandalo (n. 2975): perciò il protestantesimo, è eudemonismo dal principio alla fine eliminando l’ascesi, il celibato, il martirio (n. 2932). E si è giunti al punto, osserva amaramente Kierkegaard con uno stile degno di san Pier Damiani, che nel protestantesimo la religiosità si identifica con la propagazione della specie, con il matrimonio (n. 3186). Lutero pretendeva che era impossibile vivere casti fuori del matrimonio ma perché? perché gli uomini erano diventati così dissoluti e sensuali. Ma la Riforma diventa allora una cosa curiosa, specialmente quando si deve strombazzare ai quattro venti il gran progresso cristiano che si dice essa sia. Essa invece si rivela sempre più una concessione fatta alla libidine o alla sensualità. Non stupisce allora che nel protestantesimo si sia giunti al punto di considerare l’uomo celibe come un oggetto di ridicolo, alla stregua di uno stivale spaiato, cioè qualcosa che sbaglia la sua destinazione quando non è abbinato a un altro (n. 3226). Ecco perché la dottrina di Lutero non è la dottrina di Cristo: Lutero ha alterato il cristianesimo alterando la dottrina del martirio e combattendo la verginità (n. 2914).
Tutto questo significa per Kierkegaard che il celibato dà il criterio assoluto, quando sia ‑ come deve essere secondo l’ascetica cristiana ‑ proposito di purificazione dello spirito da ogni aderenza al mondo, segno della trascendenza esistenziale del cristianesimo (n. 3227). E nota in margine: «Tutti quelli che in verità hanno insegnato gli ideali, hanno anche elogiato il celibato. Sposarsi è rendere il proprio rapporto all’ideale così difficile, che ordinariamente equivale all’abbandono dell’ideale» (n. 3241). E i testi si potrebbero ancora moltiplicare facilmente. Essi costituiscono un esempio unico e singolare forse in tutto il cristianesimo dell’Ottocento, in un’epoca in cui nella stessa Germania cattolica fermentavano aspri movimenti contro il celibato.
Certamente a questo approfondimento singolare e beatificante della capacità elevante del celibato molto contribuì il suo rapporto con Regina, ma soprattutto le sue letture della letteratura cristiana antica e dei Padri sia apostolici sia posteriori, in particolare sant’Agostino, le cui opere figurano nella sua biblioteca. Un ampio testo del 1854-1855, che porta il titolo Celibato, svolge il pensiero che «Dio vuole il celibato, perché vuole essere amato», così che «ogni volta che si attua il celibato per amore di Dio, ci si conforma al pensiero di Dio». E conclude: «Mi viene quasi da rabbrividire quando penso a quanto avanti mi sono trovato su questa via, e come in modo quasi miracoloso sono stato fermato e spinto indietro allo stato celibe: come anche, comprendendo me stesso, ma comprendendomi come un’eccezione, ho saputo nascondere il mio segreto per i contemporanei, finché ora dopo tanto cammino vedo come la Provvidenza ancora mi ha assistito e vuole ottenere da tutto questo qualche risultato concreto. Infinita maestà, anche se Tu non fossi amore, anche se Tu fossi fredda nella tua infinita maestosità, io però non potrei fare a meno di amarti, ho bisogno di qualcosa di maestoso per amare. Quello di cui altri si sono lamentati, cioè di non aver trovato l’amore in questo mondo, sentendo perciò il bisogno di amare Te, perché Tu sei l’amore (ciò che io concedo in pieno), vorrei proclamarlo anche nei riguardi del maestoso. C’era e c’è nell’anima mia un bisogno della maestà, di una maestà che mai mi sentirò stanco o tediato di adorare» (n. 3189). Quindi «…il cristianesimo tiene fermo per il celibato, e io non farò come Lutero (me ne guarderò bene!), non dirò come lui che sembra che Paolo non vada d’accordo con Cristo. Non dirò: Cristo sia messo in disparte; è Paolo l’uomo che ci vuole!» (n. 3193). Anche questa sua crescente e fiammante apologia del celibato rivela la sua tendenza cattolicizzante (4), come oggi i ritorni di fiamma e le aperte condiscendenze al sacerdozio uxorato che serpeggiano nella Chiesa rivelano l’allentamento crescente e preoccupante della tensione esistenziale per la donazione infinita dell’anima nel suo impeto di ascesa al suo Dio.