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Toccare il fondo. Se il gesuita de Certeau esce dal dimenticatoio e diventa un riferimento per l’oggi
NEWS 7 Febbraio 2017    

Toccare il fondo. Se il gesuita de Certeau esce dal dimenticatoio e diventa un riferimento per l’oggi

di Rino Cammilleri

 

Sull’ultimo numero di «Vita & Pensiero», la rivista dell’Università Cattolica, la storica americana Natalie Zemon Davis traccia un ritratto appassionato di Michel de Certeau (1925-1986), che papa Bergoglio ha definito «il più grande teologo per il giorno d’oggi». Poiché non mi intendo di teologia, incuriosito sono andato a vedere su internet e ho trovato le foto (sempre in borghese) di questo «gesuita, antropologo, linguista e storico francese, la cui opera spazia su ambiti diversi quali la psicoanalisi, la filosofia e le scienze sociali».

Al suo funerale, a Parigi, nella chiesa di Saint-Ignace risuonarono le note di Je ne regrette rien di Edith Piaf: «Non rimpiango niente». Curioso: che cosa ci sarebbe stato da rimpiangere o i cui pentirsi? Savoiardo di Chambéry ed ex staffetta partigiana, il de Certeau, nel 1950 divenne gesuita e fu allievo del celebre p. Henri de Lubac (poi diventato cardinale), nello stesso anno in cui il papa Pio XII «ordinò a de Lubac di interrompere l’insegnamento pubblico e censurò il suo libro sul soprannaturale». De Certeau era affascinato dai «mistici selvaggi» del XVII secolo, in particolare dal gesuita Jean-Joseph Surin, la cui predicazione itinerante rasentava l’eresia (nella Francia delle guerre di religione) e che ebbe un ruolo di primo piano nel grande esorcismo delle suore orsoline indemoniate di Loudun (attorno agli anni 1635 e 1636).

Scrive infatti la Davis su de Certeau che «i suoi eroi sono spesso vagabondi, pellegrini, missionari e nomadi come il visionario seicentesco Jean de Labadie, che iniziò da gesuita (…) e finì col fondare nei Paesi Bassi una comunità protestante». De Certeau nel 1964 fu uno dei membri fondatori dell’École freudienne di Parigi, l’istituto del famoso Jacques Lacan. Erano gli anni del Concilio, le cui riforme a suo avviso «costituivano un “rottura” creativa con gli inflessibili schemi gerarchici del passato». Infatti, «riteneva che il Vaticano II avrebbe dovuto portare la Chiesa a immergersi completamente nelle tematiche del mondo moderno».

Coerentemente, viaggiò molto in Sudamerica, «attirato dai sacerdoti della Teologia della liberazione». Si entusiasmò per il Maggio (1968) francese e scrisse che «lo scorso maggio la parola è stata presa come nel 1789 è stata presa la Bastiglia». Manifestò in seguito la sua delusione per il fallimento sia delle speranze sessantottine che di quelle conciliari. Nel 1971 un suo saggio sul significato del cristianesimo fu respinto dall’Institut Catholique di Parigi (che glielo aveva richiesto) e lui, anziché correggerlo come suggerito dallo stesso Istituto, lo pubblicò col titolo La rupture instauratrice, dove sosteneva che «il “seguitemi” di Gesù viene da una voce eclissata, ormai irrecuperabile per sempre». A questo punto anche de Lubac prese le distanze da lui, «accusandolo di essere un gioachimita alla ricerca, come il visionario medievale, di una presunta epoca d’oro della pura spiritualità, priva di qualsiasi tipo di istituzione ecclesiastica o disciplinare».

Forse qualcuno, più esperto di me, può illuminare meglio questa figura di teologo e farmi capire perché è «il più grande» per i tempi che corrono. E’ anche vero che i gesuiti non sono più quelli di san Roberto Bellarmino, ma quando hanno cessato di esserlo?