«LA RELIGIONE NON C’ENTRA?». Monsignor Warda non risparmia critiche neanche ai media occidentali: «Chi parla di “messa al bando dei musulmani” farebbe bene a misurare le parole perché ci mette in serio pericolo. La maggior parte degli americani non ha la minima idea di che cosa significhi essere un cristiano o una yazida in Iraq. E nessuno ha protestato mentre l’Isis ci uccideva o ci obbligava ad abiurare. I terroristi ci perseguitano per la nostra religione, noi abbiamo perso tutto per la nostra religione e ora gli americani dicono che la religione non deve c’entrare in tema di visti, anche se la persecuzione religiosa è un criterio per avere lo status di rifugiato secondo l’Onu? Per me è pazzesco sentire certe cose».
«ABBIAMO FESTEGGIATO TRUMP». L’arcivescovo di Erbil non vuole che «i cristiani se ne vadano dall’Iraq» ma, aggiunge, «non posso che apprezzare gli sforzi del governo americano per dare la priorità a chi tra noi sta soffrendo, non solo cristiani, questo sarebbe un messaggio sbagliato, ma tutte le minoranze perseguitate. Noi ci siamo sentiti abbandonati dagli Stati Uniti fino ad oggi. Non posso che essere contento se un presidente americano finalmente si rende conto che i cristiani hanno bisogno di aiuto. La verità è che noi cristiani abbiamo festeggiato quando Trump ha vinto perché speravamo che finalmente l’America si accorgesse di noi».
«CHIESA MADRE DI TUTTI». Monsignor Warda dice anche di capire chi vuole aumentare i controllo sui rifugiati: «Io so solo due cose: primo, è terribile convivere con il terrorismo. Il mio paese lo fa ogni giorno e se gli Stati Uniti vogliono avere un processo di controllo più accurato, posso capirlo e lo apprezzo. È comprensibile che la gente abbia paura di chi entra nel proprio paese». Secondo, «la Chiesa cattolica è dalla parte degli immigrati, sempre, a prescindere da fede o origine. Noi siamo pastori di tutti: chi parte e chi resta. Il punto è che responsabilità ha il mondo nei confronti di questa gente: temo che i media si concentrino solo su chi parte e si dimentichino di chi ancora prova a vivere e sopravvivere nella propria terra legittima».