Una preghiera, la lettura di un passo biblico, un dolce da mangiare insieme. Nel suo povero Natale, celebrato in carcere in un incontro di soli trenta minuti con il marito e le due figli, Asia Bibi lancia un solo messaggio al mondo che segue col fiato sospeso la sua vicenda: «Vorrei solo dire che non odio nessuno. Non odio quanti mi hanno fatto soffrire in tutti questi anni. Perdono tutti e prego per quanti mi hanno fatto del male».
Se il Natale è la festa dalla pace, quella che annunciano gli angeli «a tutti gli uomini di buona volontà», Asia Bibi, la donna cristiana pakistana condannata a morte ingiustamente per blasfemia, il suo Natale lo vive in pienezza.
Il calvario di Asia va avanti da sette anni e per la settima volta la donna trascorre il Natale, festa della famiglia per antonomasia, dietro le sbarre, oggi nel braccio di massima sicurezza del carcere femminile di Multan.
Questa drammatica condizione, sopportata grazie alla preghiera e alla lettura quotidiana della Bibbia, è stata per lei una sorta di «lungo ritiro spirituale» in cui Asia ha maturato una profonda consapevolezza di sé, della sua storia, del suo destino, che esula da ogni ragionamento o rivendicazione umana e giunge al cuore dell’esperienza cristiana. Benedire una vita sfregiata da un’ingiusta condanna a morte e benedire i propri persecutori non è opera umana e non può essere che dono inestimabile della grazia di Dio.
Un breve momento di preghiera, la lettura di un passo del Vangelo, poi il taglio di un dolce natalizio e il commosso scambio di auguri, con l’abbraccio alle figlie. In un clima dove il non-detto è stato molto più significativo e pregnante di quanto ogni bocca potesse proferire.
Dopo le parole di perdono e di benedizione, «Asia ha voluto ringraziare nuovamente il Papa e quanti continuano a pregare per lei», riferisce Nadeem a Vatican Insider. «E ha espresso la convinzione che, grazie alla volontà di Dio, sarà presto libera».
La donna è apparsa in condizioni di salute, fisiche e psicologiche, dignitose, ma è appena uscita da una fase di malattia che, nelle ultime settimane, l’ha debilitata. La delegazione familiare le ha portato cibo e vestiti nuovi.
Va detto che anche la sua famiglia vive in condizioni di indigenza e solo la generosità di Joseph Nadeem e della Renaissance Education Foundation di Lahore – che continua la campagna di raccolta fondi a beneficio della donna e dei suoi familiari – consentirà di vivere un Natale dignitoso.
Intanto il tormentato caso legale di Asia Bibi è davanti alla Corte Suprema, terzo grado di giudizio. L’udienza prevista ad ottobre scorso è stata rinviata perchè uno dei magistrati si è tirato indietro all’ultimo minuto, rifiutandosi di giudicare un caso così sensibile. E ora la difesa di Asia, guidata dall’avvocato musulmano Saiful Malook, che si è sempre dichiarato ottimista sull’esito del ricorso, ha chiesto al supremo tribunale di assegnare al più presto il caso a un altro collegio giudicante. Secondo fonti giudiziarie, però, attualmente la Corte Suprema del Pakistan, nelle sue diverse articolazioni, è impegnata nei procedimenti che hanno coinvolto in casi di corruzione il primo ministro pakistano Nawaz Sharif e la sua famiglia. L’indagine, iniziata grazie alle rivelazioni dei noti Panama papers, potrebbe richiedere diversi mesi, dicono gli osservatori.
Procedimenti di questo livello, che rischiano di scuotere alle fondamenta la politica nazionale, rappresentano la motivazione ufficiosa – forse pretestuosa – per ritardare ulteriormente l’impegno della Corte per il caso di Asia Bibi.
Attualmente l’avvocato della donna non ha notizie né indicazioni orientative su quando una nuova udienza potrebbe essere fissata. Il rinvio di ottobre fu «sine die» e il timore è che lo spinoso caso di Asia Bibi resti ancora a tempo indeterminato in un limbo che fa comodo a molti.
Fa discutere, poi, l’ennesima presa di posizione contro la legge di blasfemia, lo strumento usato per trafiggere la vita di Asia Bibi. Nel recente rapporto titolato «As good as dead», Amnesty International osserva che la legge sulla blasfemia viene spesso usata contro le minoranze religiose e costituisce il pretesto con cui gruppi organizzati di estremisti islamici minacciano o uccidono le persone accusate, in un patente abuso della religione, della legalità, dei diritti umani fondamentali.