L’immensa India fatica a essere all’altezza della fama di tolleranza che la sua tradizione e anche una parte della sua società esigono. Le antiche discriminazioni a base socio-religiosa permangono e si radicalizzano perché alimentate da fattori aggiornati, come interessi politici e opportunità di controllo.
Non è un caso se gruppi e individui impegnati nella tutela dei diritti umani (e tra essi la libertà religiosa) continuano a registrare tensioni, prevaricazioni e violenze contro le minoranze in un contesto politico dominato dalle espressioni politiche dell’induismo militante. A partire dal Bharatiya Janata Party (Bjp), tornato al potere nel maggio 2014 sotto la guida di Narendra Modi, già controverso capo di governo dello Stato occidentale del Gujarat, uno di quelli dove negli ultimi anni è stata imposta la legge anti-conversione, mirata – secondo promotori e sostenitori – a impedire attività misisonarie che utilizzino strumenti fraudolenti o addirittura minacce per togliere seguaci all’induismo.
Pretesti, non provati dalle statistiche. Che se segnalano una crescita relativa dei cristiani, non ne registrano un incremento percentuale. Vero è invece il contrario, ovvero che le campagne sempre più presanti per la riconversione all’induismo di chi si è convertito a fedi minoritarie sovente per sfuggire alla discriminazione castale si intensificano e sono accompagnate da un misto di benefici e minacce, mente la situazione dei diseredati, soprattutto nelle campagne, costringe molti a aderire alle campagne di riconversione per ottenere benefici immediati a anche quelli che la legge garantisce ai gruppi meno favoriti di matrice induista ma nega agli omologhi musulmani e cristiani.
Una conferma della situazione difficile delle comunità cristiane, il 2,5 per cento degli abitanti dell’India, arriva da un rapporto di Open Doors, organizzazione internazionale che pone l’India al 17° posto tra i 50 paesi che più dimostrano accanimento verso i battezzati. La posizione peggiore per il Paese asiatico dall’avvio del monitoraggio di Open Doors. Una situazione che viene attribuita soprattutto al contesto politico. Come sottolinea il leader evangelico indiano, reverendo Richard Howell, «con l’arrivo dell’induismo politico è iniziata la persecuzione da parte della maggiornaza. Ogni settimana ci sono tre-quattro casi di aggressione a cristiani».
L’impunità di fatto e in ogni caso la difficoltà ad ottenre giustizia spinge gli estremisti a aggredire i cristiani sui luoghi di lavoro o nei centri di preghiera e a espellere dalle comunità chi si converte. Secondo Open Doors, anche in Stati che non hanno applicato la legge anti-conversione, i cristiani subiscono restrizioni e sono costantemente tenuti sotto controllo. Addirittura, esponenti di caste superiori impongono multe ai cristiani con motivazioni insostenibili. Al punto che, indica il rapporto, “quello che stiamo vedendo è un attacco senza precedenti, sistematico e coordinato dall’alto mirato all’espulsione”.
“Molte denominazioni cristiane hanno segnalato lo scorso anno casi di aggressioni o abusi che attribuiscono a gruppi nazionalisti indù che il Bjp sostiene tacitamente. E nel 2016 – prosegue il rapporto – un gruppo di attivisti ha comunicato di avere registrato almeno 365 casi di aggressioni gravi (erano stati 120 nel 2014) contro individui o istituzioni cristiane che hanno coinvolto oltre 8.000 battezzati”. Dati confermati dalla Commisisone Usa per la Libertà religiosa nel mondo. “Nel 2015 – segnala il più recente rapporto della commissione che analizza anche le responsabilità dei sistemi giudiziario e politico sulla situazione – la tolleranza religiosa si è deteriorata e sono cresciute le violazioni della libertà religiosa. Le minoranze, soprattutto cristiani, musulmani e sikh, hanno subito un crescente numero di intimidazioni, pressioni e violenze che hanno come responsabili soprattutto gruppi nazionalisti indù”.