«Il Sì fa il risultato migliore a Milano, Bologna, Firenze e il peggiore a Napoli, Bari, Cagliari. C’è altro da aggiungere?». Quando, a poche ore dal referendum, l’ex presidente dell’Enel Chicco Testa ha diffuso questo tweet non ha espresso “razzismo”, come è stato detto criticandolo. Ha mostrato di non aver colto la lezione del 4 dicembre. A Capalbio il clima è mite, il mare splendido, l’aria ideale per lo jogging: quando il No si materializza al 60 per cento ti fa lo stesso effetto dei profughi, pur se poche unità, che compaiono in cerca di alloggio temporaneo. È un pezzo di una realtà che – sia che appartieni alla sinistra radical chic sia che sconfini nella destra perbenista (c’è tanta differenza?) – preferisci tenere a distanza. Hai nei suoi confronti un atteggiamento ideologico postmarxista: se la realtà non si incasella nelle categorie che ti sei costruito, tanto peggio per la realtà.
Negli otto mesi di campagna referendaria il Sì è stato presentato come il voto responsabile, distante dai populismi, bene accetto ai salotti, all’Unione Europea e agli investitori. Poi però si è fermato al 40 per cento: perché? Perché se tratti come un paria chi ha una intenzione di voto diversa dall’establishment; se la qualifica più garbata che gli attribuisci è “populista”; se teorizzi di limitare il più possibile il voto stesso, soprattutto quando passa per un referendum, chi ti ascolta e tiene al proprio voto, visto che non gli è rimasto altro, ti dice chiaro e forte che non è d’accordo. Se poi, a urne chiuse, ne disprezzi il risultato e lo qualifichi come incivile, veramente mostri che il tuo orizzonte si ferma a Capalbio.
Le ragioni di una mossa
Chiediti perché, con lo spiegamento impressionante messo in campo dal Sì, e con un No a mani nude, è andata come è andata. Quel 60 per cento è vario: non permette a nessuno di vantare la vittoria esclusivamente come propria, e non si spiega con la mera sommatoria dei simpatizzanti di M5s, Lega, di una parte di Forza Italia e della minoranza Pd. Si spiega con ulteriori addendi, non ultimo quello di famiglie italiane che non si sentono rappresentate da nessuno e che protestano contro la propria umiliazione, accelerata negli ultimi tre anni. Cui si aggiunge la fotografia di concreta quotidiana difficoltà scattata alla loro condizione dall’ultimo rapporto Censis, poche ore prima del voto.
Le motivazioni del No sono andate da quelle conservative degli apologeti della Costituzione “la più bella del mondo” all’opposizione alla riforma come conseguenza dell’opposizione politica a Renzi; ma in esse ha avuto peso anche il popolo del Family Day. Al Circo Massimo, il 30 gennaio scorso, su uno striscione vicino al palco della manifestazione delle famiglie era scritto “Renzi ci ricorderemo”. Il premier ha dapprima deriso quella piazza, poi l’ha disprezzata imponendo con doppia fiducia la legge cosiddetta sulle unioni civili (nella sostanza il matrimonio same-sex), dopo aver fatto passare con lo stesso metodo altre leggi ostili alla famiglia. Qualche mese dopo quel popolo – qualche milione di persone – “si è ricordato”.
Sarebbe grave se questa componente del No fosse ignorata ancora adesso, dopo esserlo stata dai media, dai commentatori e dal premier per l’intera campagna referendaria. Sarebbe grave se questa marginalizzazione continuasse ad avvenire da parte di un mondo cattolico che alla tornata referendaria ha pensato bene in suoi settori significativi di nascondersi o di dividersi – perfino all’interno di singole associazioni – di fronte a una riforma che negava frontalmente il principio di sussidiarietà, cardine della Dottrina sociale della Chiesa.
Il No di domenica è un incoraggiamento popolare – non populista – a non accontentarsi di aver fermato il pericolo: e a chiedersi, in epoca di crollo demografico, come ridare dignità alla famiglia. Se non ci badano in primis i cattolici, chi ci pensa? Quelli di Capalbio?