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Celebrare senza il popolo? Si puà. La Messa ha sempre «l’efficacia e la dignità  che le sono proprie»
NEWS 29 Novembre 2016    

Celebrare senza il popolo? Si puà. La Messa ha sempre «l’efficacia e la dignità che le sono proprie»

di Edward McNamara LC

 

Nel suo articolo del 7 gennaio 2008, “Celebrare la Messa silenziosamente”, Lei aveva scritto che si raccomanda a tutti i sacerdoti di celebrare ogni giorno, anche quando non si possa avere la presenza dei fedeli. Questa opinione si basa, presumibilmente, sul Canone 904: “se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana”. Tuttavia, avevo sempre capito che le norme della Chiesa in questa materia rendono ben chiaro che un sacerdote non dovrebbe celebrare la Messa se non vi è almeno una persona presente. Ciò si basa sull’innegabile fatto che la Messa non è una devozione privata, ma il culto pubblico della Chiesa, e viene chiaramente stabilito nel Canone 906: “Il sacerdote non celebri il Sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele, se non per giusta e ragionevole causa”. Direi che la devozione privata del sacerdote, per quanto lodevole, non costituisca una “giusta e ragionevole causa” a fronte di questo divieto. — P.A., Londra, Regno Unito

Questo articolo risale a vari anni fa, ma mi piace comunque trattare di nuovo l’argomento.

Innanzitutto, concordo col principio del nostro lettore, secondo cui la Messa è essenzialmente un culto pubblico e non una devozione privata. Non sarebbe corretto che un sacerdote preferisca celebrare da solo tutte quelle volte in cui sarebbe possibile avere almeno un fedele presente. Direi inoltre che dovrebbe solitamente privilegiare una celebrazione comunitaria.

Allo stesso tempo, mi permetto di dissentire dal dire che la Messa senza il popolo sia proibita, o che il desiderio da parte di un sacerdote di celebrare la Messa quotidiana non costituisca una “giusta e ragionevole causa”.

I canoni a cui fa riferimento il nostro lettore sono i seguenti:

Can. 904 – Memori che nel mistero del Sacrificio eucaristico viene esercitata ininterrottamente l’opera della redenzione, i sacerdoti celebrino frequentemente; anzi se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana, la quale, anche quando non si possa avere la presenza dei fedeli, è sempre un atto di Cristo e della Chiesa, nel quale i sacerdoti adempiono il loro principale compito”.

Can. 906
– Il sacerdote non celebri il Sacrificio eucaristico senza la partecipazione di almeno qualche fedele, se non per giusta e ragionevole causa.

Di conseguenza abbiamo due norme che non sono in contraddizione. Una raccomanda la Messa quotidiana; l’altra richiede la presenza dei fedeli.

Di questi due canoni, la tradizione più antica è quella del 906. Il divieto della Messa in mancanza si un assistente o di almeno un membro dei fedeli che possa rispondere, si riscontra sin dal XII secolo. Vi furono alcune eccezioni, ad esempio durante i tempi di pestilenza, o qualora fosse necessario recare il viatico ai moribondi, o quando l’accolito andava via durante la Messa, o ancora nel caso in cui il sacerdote non poteva più celebrare per un periodo di tempo prolungato. L’insistenza sulla presenza di un accolito era dovuta al suo rappresentare l’intera comunità cattolica.

Va notato, tuttavia, che il Canone 906 è in realtà meno restrittivo dell’equivalente Canone 813 § 1 del Codice del 1917. Il nuovo codice infatti non richiede più la presenza di un accolito ma di un qualsiasi membro dei fedeli. Inoltre il vecchio Codice richiedeva per celebrare senza la presenza di un fedele un “motivo grave” o grave necessità. Il codice attuale invece utilizza l’espressione più mite “giusta e ragionevole causa”. Stando a un valido commentario: “Una tale causa si presenterebbe ogni volta che non sia disponibile un membro dei fedeli e quando il sacerdote sia impossibilitato a partecipare a una celebrazione comunitaria, per esempio, come per malattia, degenza o un viaggio. Non sarebbe una giusta e ragionevole causa la mera convenienza del sacerdote o la sua preferenza a celebrare da solo”.

D’altro canto, la raccomandazione a celebrare quotidianamente è relativamente nuova. Il Codice del 1917 obbligava i sacerdoti a celebrare un certo numero di volte l’anno, e tre o quattro volte venivano generalmente considerate sufficienti per adempiere all’obbligo.

Tuttavia la pratica di una celebrazione quotidiana venne crescentemente promossa, in quanto parte della missione sacerdotale, e divenne sempre più comune. In questo caso qualsiasi celebrazione della Messa era un atto pubblico, poiché il sacerdote è una figura pubblica e i suoi atti liturgici non sono mai espressioni di devozione privata ma sempre un’azione della Chiesa.

Fu in questo contesto che il Servo di Dio Felice Cappello (1879-1962), gesuita e grande canonista, persuase gradualmente la Santa Sede ad ammorbidire le restrizioni, e a tenere in considerazione il desiderio personale di celebrare la Messa da parte del sacerdote come motivazione sufficiente a celebrare anche in assenza di almeno un membro dei fedeli.

Questa linea di pensiero, che definisce la Messa come missione centrale di un sacerdote, si riflesse nelle considerazioni del Concilio Vaticano Secondo e del magistero papale. Per esempio, i documento conciliare Presbyterorum Ordinis stabilisce:

“Nella loro qualità di ministri della liturgia, e soprattutto nel sacrificio della messa, i presbiteri rappresentano in modo speciale Cristo in persona, il quale si è offerto come vittima per santificare gli uomini; sono pertanto invitati a imitare ciò che compiono, nel senso che, celebrando il mistero della morte del Signore, devono cercare di mortificare le proprie membra dai vizi e dalle concupiscenze (104) Nel mistero del sacrificio eucaristico, in cui i sacerdoti svolgono la loro funzione principale, viene esercitata ininterrottamente l’opera della nostra redenzione (105) e quindi se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana, la quale è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa (106), anche quando non è possibile che vi assistano i fedeli.

Così i presbiteri, unendosi con l’atto di Cristo sacerdote, si offrono ogni giorno totalmente a Dio, e nutrendosi del Corpo di Cristo partecipano dal fondo di se stessi alla carità di colui che si dà come cibo ai fedeli. Allo stesso modo, quando amministrano i sacramenti si uniscono all’intenzione e alla carità di Cristo; il che realizzano in modo particolare nell’esercizio del sacramento della penitenza, se si mostrano sempre e pienamente disposti ad amministrarla ogniqualvolta i fedeli ne facciano ragionevolmente richiesta. Nella recitazione dell’ufficio divino essi danno voce alla Chiesa, la quale persevera in preghiera in nome di tutto il genere umano assieme a Cristo, che è «sempre vivente per intercedere in favore nostro» (Eb 7,25)”.

Ritengo che fu questa riflessione sulla centralità della Messa nella vita sacerdotale, e quindi nella vita della Chiesa, a portare alla semplificazione delle restrizioni che ritroviamo nel codice del 1983, che pure lascia intatto il principio della preferibilità di una celebrazione comunitaria.

Anche l’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) tocca l’argomento:

“19. Non sempre si possono avere la presenza e l’attiva partecipazione dei fedeli, che manifestano più chiaramente la natura ecclesiale della celebrazione. Sempre però la celebrazione eucaristica ha l’efficacia e la dignità che le sono proprie, in quanto è azione di Cristo e della Chiesa, nella quale il sacerdote compie il suo ministero specifico e agisce sempre per la salvezza del popolo. Perciò a lui si raccomanda di celebrare anche ogni giorno, avendone la possibilità, il sacrificio eucaristico”.

“254. La celebrazione senza ministro o senza almeno qualche fedele non si faccia se non per un giusto e ragionevole motivo. In questo caso si tralasciano i saluti, le monizioni e la benedizione al termine della Messa”.

E infine anche il Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri del 2013:

“67. Il sacerdote è chiamato a celebrare il Santo Sacrificio eucaristico, a meditare costantemente su ciò che esso significa e a trasformare la sua vita in una Eucaristia, il che si manifesta nell’amore al sacrificio quotidiano, soprattutto nell’adempi-mento dei propri doveri di stato. L’amore alla croce conduce il sacerdote a diventare se stesso un’offerta gradevole al Padre per mezzo di Cristo (cf. Rm 12,1). Amare la croce in una società edonistica è uno scandalo, però da una prospettiva di fede, essa è fonte di vita interiore. Il sacerdote deve predicare il valore redentore della croce con il suo stile di vita.

“È necessario richiamare il valore insostituibile che per il sacerdote ha la celebrazione quotidiana della Santa Messa – “fonte e apice” della vita sacerdotale –, anche quando non vi fosse concorso di alcun fedele. Al riguardo, insegna Benedetto XVI: «Insieme con i Padri del Sinodo, raccomando ai sacerdoti “la celebrazione quotidiana della Santa Messa, anche quando non ci fosse partecipazione di fedeli”. Tale raccomandazione si accorda innanzitutto con il valore oggettivamente infinito di ogni celebrazione eucaristica; e trae poi motivo dalla sua singolare efficacia spirituale, perché, se vissuta con attenzione e fede, la santa Messa è formativa nel senso più profondo del termine, in quanto promuove la conformazione a Cristo e rinsalda il sacerdote nella sua vocazione»”.

[Traduzione dall’inglese a cura di Maria Irene De Maeyer]