di Vittorio Messori (da Pensare la storia, 1992)
Esulta il competente assessore del Comune di Torino perché, in due soli anni, le cremazioni sono aumentate del 200 per cento. Si prevede che, tra non molto, si potrà arrivare alla situazione dell’Europa settentrionale, dove ormai il numero dei defunti inceneriti è superiore a quello degli inumati. Una prospettiva garantita ora in Italia da nuove disposizioni di legge, secondo le quali non è più necessario per la cremazione che il defunto abbia lasciato disposizioni in proposito: per lui può decidere il parente più prossimo.
La soddisfazione particolare a Torino deriva dal fatto che il boom delle fiamme segna il successo di una campagna pubblicitaria del Comune. Si propagandava la cremazione con alcuni slogan (del tipo «l’anima non è bruciata») che intendevano rassicurare i cattolici che ancora esitassero. La Curia stessa non aveva dato parere negativo a quella pubblicità. Né, del resto, avrebbe potuto farlo, visto che il nuovo Codice di Diritto Canonico, al terzo paragrafo del canone 1176, così recita: «La Chiesa raccomanda vivamente che si conservi la pia consuetudine di seppellire i corpi dei defunti; tuttavia non proibisce la cremazione, a meno che questa non sia stata scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana».
La nuova norma si adegua all’iniziativa di Paolo VI che, nel clima di eccitazione – se non forse, talvolta, di distruzione – dell’immediato postconcilio, aveva deciso di infrangere una tradizione gelosamente custodita dalla Chiesa sin dai suoi inizi. Può essere allora interessante riflettere sulle nuvole che stanno in quel libro inquietante (e in qualche modo “terribile’’) che è Jota unum dello svizzero Romano Amerio. Sentiamo: «Se l’immortalità dell’anima è dogma di tutte le religioni, la resurrezione dei corpi è invece dogma esclusivo del cristianesimo ed è di tutti il più ostico alla ragione, oggetto di pura fede, primo e ultimo dei paradossi. In nessunissima credenza, fuorché nel cristianesimo, si trova chiaramente che i corpi risorgano un giorno ripigliando il filo dell’identità della persona ridivenuta "tutta quanta". Ora, questa verità osticissima alla ragione è il punctum saliens del sistema cattolico, ed è per nutrire la fede in essa che la Chiesa rifiutò sempre di bruciare i cadaveri. In morte l’uomo non è più: ma il corpo, che fu uomo – e che sarà uomo nella resurrezione finale – è degno di rispetto e di cura».
Continua Amerio: «L’antichissimo e mai intermesso costume di interrare i morti deriva dall’idea evangelica e paolina del seme interrato e del corpo seminato corruttibile e risorgente immortale (1Cor 15,42). La sepoltura cristiana imitava soprattutto la sepoltura di Cristo. La Chiesa non ha mai ignorato che anche quella riduzione in polvere che risulta dalla cremazione non pregiudica alla ricostituzione dei corpi risorgenti; ma una religione in cui tutta la realtà è segno non poteva disconoscere che la combustione del cadavere è un antisegno della resurrezione. L’incinerazione leva di mezzo tutta la simbolica dell’inumazione e priva di significato i mirabili vocaboli stessi trovati dai primi cristiani: cimitero, cioè dormitorio; camposanto, cioè luogo di consacrati a Dio; deposizione, non nel senso fisico di porre già entro la terra, ma nel senso legale, onde le salme sono date in deposito da restituire il giorno della resurrezione. Questi valori simbolici parvero così potenti che la Chiesa li fece trapassare in valori teologici: il far cremare la propria salma fu tenuto per professione dì incredulità».
La conclusione del laico studioso è, al suo solito, severa: «La perdita dell’originalità della Chiesa, anche in cose dì tradizione immemorabile e di alto senso religioso, rientra nel generale fenomeno dell’accomodazione al mondo, della decolorazione del sacro, dell’invadente utilitarismo e dell’eclissazione del primario destino ultramondano dell’uomo».
Questo Jota unum ha per sottotitolo «Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel XX secolo». In effetti, quella voluta (o, almeno, accettata) da Paolo VI costituisce una delle più vistose “variazioni” cattoliche. Per rispettare il simbolismo della resurrezione e per imitare il Cristo, il cui corpo fu deposto in un sepolcro e non bruciato su una pira funeraria, sin dai suoi inizi la Chiesa fu tenacissima nell’opporsi alla cremazione praticata dai pagani. Nelle catacombe non si trova una sola urna cineraria, nei tempi di persecuzione i fedeli sfidarono la morte per seppellire i corpi delle vittime e sottrarli al rogo.
Tertulliano chiama la cremazione «consuetudine atrocissima» e già nel 627 il terzo Concilio di Toledo poteva definire la sepoltura come «ininterrotta e sempre praticata prassi della Chiesa». L’insegnamento fu così costante e preciso che nemmeno la Rivoluzione francese riuscì a far passare la cremazione nel suo delirante “pacchetto” di leggi di scristianizzazione: ci fu, nel 1796, una proposta, ma il provvedimento fu poi lasciato cadere per l’ostilità popolare.
Ciò che non riuscì ai giacobini, fu ripreso con decisione, a partire dalla metà dell’Ottocento, dalla massoneria, soprattutto quella duramente anticattolica dei Paesi latini: dappertutto fu un pullulare di “Società per la cremazione”, molte delle quali ancora esistenti e tutte emanazione diretta delle Logge. Chi visiti, ad esempio, l’impianto per l’incenerimento del Monumentale di Milano, si trova di fronte a una esibizione di triangoli, squadre, compassi, fronde di acacia, stelle a cinque punte. Così, la Chiesa, pur ribadendo che «la cremazione, in se stessa, non contrasta con alcun dogma cattolico», ancora nel 1926 la definiva, con un decreto del Sant’Uffizio, «empia e scandalosa e quindi gravemente illecita». Pertanto, il Codice Canonico in vigore sino all’inizio del 1983 stabiliva che «chi ha disposto che il suo corpo sia bruciato, se prima di morire non ha dato qualche segno di pentimento, sia privato della sepoltura ecclesiastica».
Ecco, dunque, che le nuove norme non sono davvero “variazione” da poco e sembrano inquadrarsi in un progetto per rendere in tutto il cattolico “uno come gli altri”. Probabilmente, in certo clero non vi è più sufficiente consapevolezza dell’importanza che per tutti gli uomini – ma in modo particolarissimo per quelli religiosi – assumono i segni, i simboli e della necessità di questa simbologia per conservare l’identità, il senso di appartenenza a una comunità con la sua Tradizione, le sue regole, i suoi doveri, i suoi segni.
Non era ritorno al legalismo farisaico, ma preciso segnale di appartenenza, il tatto che il cattolico fosse anche uno che non mangiava carne il venerdì, che andava a messa la domenica, che si muoveva in processione in certi giorni, che in altri digiunava e che infine si faceva seppellire e non bruciare. Ora, nessuno ricorda più il precetto del “magro” e del “digiuno”; a Messa si può andare anche il sabato e non mancano teologi che bollano di “formalismo anacronistico” l’antico dovere di santificare le feste; le processioni (pure quella solennissima del Corpus Domini) non di rado sono abolite; il forno crematorio è lecito.
Come mostrano gli altri due monoteismi, quello ebraico e quello islamico, così ricchi di “regole” attentamente rispettate, la compattezza di una comunità religiosa passa anche attraverso il non essere, quando necessario, “come gli altri”. Forse, anche questa dimenticanza non è estranea a quella perdita di identità cattolica che gli stessi vescovi constatano allarmati.