Non ci sono parole per esprimere l’amarezza che suscita la notizia della convinta ed entusiastica adesione della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) alla Marcia per l'Amnistia, la Giustizia, la Libertà intitolata a Marco Pannella e Papa Francesco, organizzata per il 6 novembre a Roma dal Partito Radicale Transnazionale Nonviolento e Transpartito, in occasione del Giubileo dei Carcerati.
L’annuncio è anche stato portato a domicilio, a Radio Radicale, da don Ivan Maffeis, portavoce della CEI. Don Maffeis ha sottolineato come la decisione sia stata presa dal segretario generale monsignor Nunzio Galantino, che ha «informato» della decisione il presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco, il quale «condivide le finalità dell’iniziativa» (e le modalità?).
Tralasciamo la curiosità di un segretario che, in barba agli statuti della CEI, ormai la gestisce a proprio piacimento – quel Galantino sempre più in versione Marchese del Grillo («Io so’ io e voi nun sete un c…») -; e andiamo invece ai motivi che rendono questa decisione indigeribile.
Il primo pensiero che viene in mente è l’ennesimo schiaffo dato al popolo del Family Day. Il monsignor Galantino che oggi corre giulivo alla corte degli eredi di Pannella è lo stesso Galantino che non solo non ha detto una parola a sostegno dei Family Day, ma ha cercato addirittura di impedire con tutte le forze che si svolgessero. In piazza si deve andare per denunciare la situazione delle carceri e invocare la riforma della giustizia, non ci si deve assolutamente andare per difendere la famiglia e i propri figli dalla nuova tirannia del gender. C’è bisogno di commentare? Qualsiasi parola non riuscirebbe a rendere giustizia. Si può solo pregare che il Signore mandi pastori degni alla guida del Suo gregge.
Ma forse non è questa la cosa peggiore. Il fatto è che l’adesione alla marcia dei radicali è l’ennesima dimostrazione di una subalternità culturale che sfocia nel ridicolo e non sa neanche vedere ciò che il popolo cristiano costruisce giorno dopo giorno. Mi spiego: affermare che la situazione dei detenuti nelle carceri è disumana, che c’è un grave problema di sovraffollamento e di una giustizia lenta e spesso ingiusta è perfino ovvio. Ma l’azione dei radicali è denunciare, manifestare, protestare, al limite proporre una legge, tutto per autopromuoversi (se poi un problema si risolve tanto meglio, ma non è necessario).
Ebbene, la CEI ha deciso di andare dietro a questo approccio del problema, riconoscendo ai radicali un ruolo di guida, mentre ci sono centinaia, migliaia di cattolici che già da anni dedicano qualche ora ogni settimana per visitare i detenuti, stare con loro, fargli quella compagnia che fa alzare lo sguardo dalla propria miseria e intuire la possibilità di una nuova vita. Costoro sanno bene, e lo testimoniano a chi vuole ascoltare, che per un detenuto c’è qualcosa di ancora più importante delle condizioni fisiche di detenzione: fare l’esperienza di essere voluto bene, comprendere che c’è la possibilità di essere perdonato e di poter ricominciare. Ma a chi si arroga il diritto di parlare a nome dei vescovi italiani non importa di ascoltare il suo popolo, quello che con i detenuti ci sta davvero, li conosce e li sostiene; preferisce unirsi a quelli che denunciano nelle piazze, «per essere lodato dagli uomini».
Non solo, così facendo si dimostra di essere ingenui, nella migliore delle ipotesi, rispetto alle proposte e alle intenzioni dei radicali, che non si fanno scrupolo di usare l’immagine di papa Francesco e del Giubileo della misericordia per il proprio tornaconto di partito; godono nell’abbindolare quei cattolici che tanto disprezzano, richiamando in modo strumentale l’appello di san Giovanni Paolo II papa a favore dei carcerati, nel 2002. Ma i vertici della CEI hanno mai controllato quali sono le proposte dei radicali in materia? Non solo chiedono amnistia e indulto (per la cronaca san Giovanni Paolo II aveva speso delle parole solo per il secondo), ma anche la depenalizzazione di reati che non provocano vittime dirette, come ad esempio uso e spaccio di droga e la prostituzione. Sicuro che i vescovi sono d’accordo su queste misure? E che condividono il concetto di giustizia che hanno i radicali?
Ma la prova più evidente della confusione dottrinale che sta alla base di certe scellerate posizioni, è evidente nella risposta che il direttore di Avvenire (il quotidiano della CEI) dà alla lettera di alcuni leader radicali che chiedono appunto l’adesione del giornale dei vescovi alla marcia del 6 novembre (clicca qui). In soldoni il discorso è questo: dei radicali non condividiamo tutto, anzi su alcuni temi siamo molto lontani (e meno male, almeno questo), però fanno anche delle battaglie giuste, e su quelle noi ci stiamo. E chissà che, facendo un pezzo di strada insieme, i radicali non diventino anche cattolici…. Per carità, tutto è ovviamente possibile, ma da un punto di vista meramente umano sembra piuttosto di vedere che siano certi cattolici ad avvicinarsi al pensiero radicale.
Il direttore di Avvenire pone sullo stesso piano aborto, eutanasia, manipolazione degli embrioni da una parte e situazioni nelle carceri dall’altra. Come se il significato che si dà alla vita e alla persona umana non costituisse il criterio anche per il modo di affrontare i problemi della detenzione; come se non fosse il Giudizio finale la pietra di paragone con cui amministrare anche la giustizia umana.
Quello a cui stiamo assistendo è la negazione dell’originalità della fede cristiana, che costituisce un punto di vista nuovo con cui giudicare tutta la realtà; e la propagazione di un pensiero debole che segue l’agenda dettata dal mondo, fornendole appena un rivestimento religioso, anzi spiritualista.