Nel giugno 1537, Papa Paolo III, ovvero Alessandro Farnese, emanò la Bolla “Veritas Ipsa” (o “Sublimis Deus”). In questa era contenuta un’affermazione dirompente: “Indios veros homines esse”. La disputa sull’umanità degli Indios andava avanti da qualche decennio, divisa fra il potere laico, che era interessato a deumanizzarli per poterli schiavizzare, e il potere ecclesiastico, che li riteneva uomini a tutti gli effetti (non che fosse un amore disinteressato, visto che si trattava di un nuovo bacino di papabili fedeli). Senza indugiare oltre, riporto il testo della Sublimis Deus:
«A tutti i fedeli cristiani che leggeranno questa lettera salute e benedizione apostolica. Il Dio sublime tanto amò la razza umana che creò l’uomo in maniera tale che non solamente potesse partecipare del bene di cui godono le altre creature, ma fosse anche dotato della capacità di arrivare a raggiungere il bene supremo invisibile ed inaccessibile e di contemplarlo faccia a faccia; e per quanto l’uomo, in accordo con la testimonianza delle Sacre Scritture, sia stato creato per godere della felicità della vita eterna che nessuno può conseguire se non attraverso la fede in Nostro Signore Gesù Cristo, è necessario che possieda le doti naturali e la capacità per ricevere questa fede; e chiunque di tali doti sia provvisto deve essere capace di ricevere la stessa fede.
Né è credibile che esista alcuno con così poco intendimento da desiderare la fede e tuttavia essere privo delle facoltà necessarie per ottenerla. Dunque Gesù Cristo, che è la verità stessa che non ha mai errato né può errare, disse ai predicatori della fede da lui prescelti per quel compito: ”Andate ed insegnate a tutte le genti”. A tutti, disse, senza eccezione, posto che tutti sono capaci di essere istruiti nella fede; la qual cosa vedendo il nemico del genere umano, che si oppone sempre alle buone opere per portare gli uomini alla distruzione, provando invidia verso il genere umano, inventò un metodo fino ad allora inaudito per impedire che la parola divina di salvezza fosse predicata alle genti per la loro salvezza e incitò alcuni dei suoi accoliti, che per compiacerlo si trovarono ad affermare che gli indios occidentali e meridionali ed altre genti di cui abbiamo recente conoscenza, con il pretesto che ignorano la fede cattolica, debbono essere sottoposti alla nostra obbedienza come se fossero animali e li ridussero in servitù, obbligandoli con tante sofferenze come quelle che si usano con le bestie.
Noi che, sebbene indegni, esercitiamo sulla terra le veci di Nostro Signore e che con tutte le forze cerchiamo di portare all’ovile del suo gregge quanti ci sono stati affidati e che sono fuori dal riparo affidato alla nostra cura, consideriamo tuttavia che gli stessi indios, in quanto uomini veri quali sono, non solo sono capaci di ricevere la fede cristiana, ma, come ci hanno informato, anelano sommamente la stessa; e, desiderando di rimediare a questi mali con metodi opportuni, facendo ricorso all’autorità apostolica determiniamo e dichiariamo con la presente lettera che detti indios e tutte le genti che in futuro giungeranno alla conoscenza dei cristiani, anche se vivono al di fuori della fede cristiana, possono usare in modo libero e lecito della propria libertà e del dominio delle proprie proprietà; che non devono essere ridotti in servitù e che tutto quello che si è fatto e detto in senso contrario è senza valore; [allo stesso modo dichiariamo] che i detti indios ed altre genti debbono essere invitati ad abbracciare la fede in Cristo a mezzo della predicazione della parola di Dio e con l’esempio di una vita edificante, senza che alcunché possa essere di ostacolo.
Data in Roma, l’anno 1537, anno III del nostro pontificato».
Ovviamente ci sono inviti all’evangelizzazione e tutti i necessari richiami a Cristo, ma avessi estratto solo la parte in neretto e l’avessi attribuita a un abolizionista americano del XIX secolo, magari al Presidente Lincoln, molti l’avrebbero reputata innovativa. Ecco, l’ha scritta un Papa. Quasi cinquecento anni fa.