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Archivio. Quando gli ebrei perseguitavano i cristiani
NEWS 29 Novembre 2017    

Archivio. Quando gli ebrei perseguitavano i cristiani

di Nicola Bux
 
 
Nel suo saggio Ebrei e cristiani. Il mito di una tradizione comune (San Paolo, 2009), il noto studioso ebreo Jacob Neusner demolisce appunto l’idea, diffusasi soprattutto tra i cattolici dopo il Concilio Vaticano II, che le due religioni abbiano molto in comune. L’autore lo aveva già fatto con un altro testo, Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, nel quale affermava che «Secondo la Torah, molto di ciò che Gesù ha detto è sbagliato». Joseph Ratzinger nella prefazione lo definiva come «Il saggio più importante per il dialogo ebraico-cristiano dell’ultimo decennio».
 
Neusner ha ragione? Prendiamo le Scritture: è vero che noi cristiani abbiamo quelle ebraiche che chiamiamo Vecchio Testamento, ma gli ebrei non hanno il nostro Nuovo Testamento; inoltre, la comprensione delle Scritture per noi passa attraverso Gesù. C’è poi un altro aspetto non secondario: la religione giudaica al tempo di Gesù passava attraverso l’interpretazione dei Farisei, invece Gesù si richiamava ai Patriarchi e ai Profeti.
 
L’attuale religione giudaica è quella rinata dopo la distruzione di Gerusalemme del 70 d.C., filtrata attraverso il Talmud – monumentale studio della Torah, la legge divina, compilato tra IV e V secolo, dove il ruolo dei Profeti è minimo – perché proprio i Profeti avevano preso le distanze dalle interpretazioni insopportabili intervenute al tempo della divisione dei regni e degli esili.
 
Nella recente visita alla sinagoga di Roma, papa Benedetto XVI ha rinnovato il rispetto per l’interpretazione che gli ebrei hanno dell’Antico Testamento: sappiamo che questa è diversa da quella cristiana, soprattutto perché la Torah, come dice Neusner, è filtrata attraverso il Talmud che è il giudaismo. Ma basterebbe solo un punto a marcare la differenza: la fine del Tempio, cioè il luogo della Shekinah, la Presenza divina. Resta il fatto che «La Chiesa, popolo di Dio della nuova Alleanza, scrutando il proprio mistero, scopre il proprio legame con il popolo ebraico, che Dio “scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola”» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 839).
 
I Padri della Chiesa erano convinti che l’antica Alleanza si fosse compiuta in Cristo e se ne sentivano i veri eredi; non solo era avvenuto il passaggio dal giudaismo al cristianesimo, anzi al giudeo-cristianesimo, ma, quasi contemporaneamente, anche quello alla Chiesa dei gentili, ovvero le genti pagane che si convertivano a Cristo. L’Ecclesia ex circumcisione e l’Ecclesia ex genti bus si possono ancora oggi ammirare a Roma come due figure femminili nel mirabile mosaico di S. Sabina all’Aventino. Allora, perché tanta insistenza da parte cattolica sulla comunanza, quando poi gli stessi ebrei continuamente prendono le distanze, ora sulla persona e l’opera del Venerabile Papa Pio XII, ora sulla “Preghiera per gli ebrei” approvata dal Benedetto XVI per l’uso nella celebrazione della forma straordinaria del rito della Santa Messa, ora sulla revoca della scomunica alla Fraternità San Pio X e così via? E malgrado le spiegazioni, non sembrano mai appagati? A mio avviso, il motivo di fondo è l’anticristianesimo.
 
Negli Atti degli Apostoli i “nazareni” – così erano chiamati i cristiani dagli ebrei – non pensavano di costituire una religione a parte, malgrado le vessazioni subite dagli stessi Apostoli e dalle comunità; quando furono cacciati dalle sinagoghe, infatti, misero insieme nel primo giorno dopo il sabato – chiamato kyriakè, cioè domenica – la lettura della Torah, che si faceva di sabato, e la celebrazione dell’Eucaristia. Attorno a tale polo, si può osservare in Palestina la differenziazione progressiva della suppellettile liturgica cristiana da quella giudaica, per esempio nei simboli: il sacrificio di Isacco nelle sinagoghe è reso con tutti i dettagli figurativi, invece nelle chiese è ridotto all’agnello legato all’albero posto sotto o dietro l’altare; l’altare dei sacrifici nel cortile del Tempio e la tavola delle offerte all’interno, nelle chiese vengono sintetizzati nell’altare a cui si addossa una mensa. In occidente, molto evidente prima del Vaticano II.
 
Si può intravedere in ciò una sorta di antigiudaismo cristiano? Certamente no, ma solo la consapevolezza del compimento delle figure antiche nelle nuove. Dagli ebrei ciò è ritenuta ancora oggi una eresia. Che il cristianesimo fosse “vino nuovo in otri nuovi”, lo provano alcuni altri fatti. Gesù aveva detto: «Quando poi vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua desolazione è vicina. Allora coloro che sono in Giudea fuggano ai monti, quelli che sono nella città si allontanino…» (Lc 21,20-21). Così fecero i seguaci di Gesù nel 70, in gran parte giudei divenuti cristiani, dissociandosi dalla sanguinosa rivolta antiromana. I cristiani non parteciparono nemmeno alla rivolta del 132-135 capitanata da Bar Kochba, anzi pagarono caramente.
 
Alcuni decenni dopo, Giustino di Nablus scriveva: «I Giudei ci considerano loro nemici e loro avversari. Come voi, anch’essi ci perseguitano e ci mettono a morte quando possono farlo […]. Ne potete avere le prove. Nell’ultima guerra di Giudea, Bar Kochba, il capo della rivolta, faceva subire ai soli cristiani gli stessi supplizi se non rinnegavano Cristo» (Apologia 1, 31,6). Eusebio aggiunge: «se non lo bestemmiassero» (Storia Ecclesiastica IV,8). Alcuni ritornarono da Pella, in Transgiordania, ove si erano rifugiati e si stabilirono, secondo la testimonianza di Epifanio nel Trattato dei pesi e delle misure, attorno alla “piccola chiesa” del Sion, nella parte meridionale di Gerusalemme.
 
La rottura tra cristianesimo e giudaismo si consumò a Yamnia, centro a sud di Jaffa, dove i rabbi farisei presero in mano le redini della nazione, per ridare fiducia ai sopravvissuti al massacro compiuto dai romani e alle deportazioni, prendendo decisioni ardue al fine di riorganizzare la comunità ormai priva del Tempio e delle autorità sacerdotali e nazionali. Si confrontarono posizioni moderate e conciliazioniste, come quelle di rabbi Johanan ben Zakkai e Rabbi Joshua ben Hananyah, e posizioni dure e intransigenti, come quelle di Rabbi Eliezer ben Hircanos e di rabbi Gamaliel. Queste ultime, maggioritarie, prevalsero al
momento di definire e approvare le cosiddette 18 Decisioni vincolanti per la comunità, e di passare alla stesura delle 18 Benedizioni, con l’aggiunta di quella dei Minim, ossia gli apostati – invero una maledizione (Birkat-haMinim) – inclusiva dei giudeo-cristiani. Nella Mishna – compilazione della legge orale fatta da rabbi Juda agli inizi del III sec. d.C. a Tiberiade – si afferma perentoriamente: «Queste sono alcune delle decisioni che furono prese nella camera superiore di Hananyah ben Hiskiah ben Gurion, quando i saggi salirono per fargli visita. Essi votarono e i saggi della Scuola di Shammay (l’ala dura difesa
da un buon manipolo di gente armata pronta a far valere la ragione della forza) si trovarono in maggioranza. Quel giorno furono prese le 18 Decisioni» (Shab 1,4). Nel Talmud babilonese si legge: «Quel giorno Hillel (rabbi simbolo dei moderati in opposizione  a Shammay) sedette umilmente come un discepolo davanti a Shammay. Quel giorno fu così penoso come il giorno in cui fu fatto li vitello d’oro» (Shab 171).
 
La Birkat-haMinim finì per sancire la rottura tra l’ebraismo farisaico rappresentato dai Sapienti e la Chiesa Madre di Gerusalemme: sia gli uni che gli altri, infatti, la considerarono una vera e propria scomunica. Il testo, conservato nella ghenizah del Cairo (luogo della sinagoga dove si conservano i libri sacri) recita: «Che gli apostati non abbiano speranza e che il regno dell’insolenza sia sradicato ai nostri giorni. Che i Nozrim (i nazareni) e i Minim spariscano in un batter d’occhio. Che siano rimossi dal libro dei viventi e non siano scritti tra i giusti. Signore che abbassi gli orgogliosi». Con tale scomunica vennero così colpite tre categorie: i Giudei collaborazionisti del vincitore romano, l’impero romano in quanto tale e i Giudei seguaci di Gesù. Veniva sancita la rottura definitiva tra la Sinagoga e la Chiesa nascente. Tale posizione causò la caccia al giudeo divenuto cristiano. Al punto che l’imperatore Costantino nel 315 promulgava alcune leggi, come quella indirizzata ai capi giudei, in cui proibiva di molestare quanti avevano abbracciato la nuova religione, ribadendo la legislazione precedente che proibiva agli incirconcisi di diventare ebrei, insieme all’abolizione del supplizio della croce, del crurifragio – lo spezzar le gambe ai condannati
a morte – e del marchio a fuoco sulla fronte degli schiavi. Nel 329, il 18 ottobre, l’imperatore promulgava una legge per proteggere i convertiti dal giudaismo, condannando a morte i Giudei che avessero lapidato chiunque «era fuggito dalla setta omicida e aveva rivolto gli occhi al culto di Dio (diventato cristiano)». Viene alla memoria il protomartire Stefano, ucciso tre secoli prima dagli ebrei ellenisti.
 
Ancora il 21 ottobre del 335, Costantino decretava la punizione per i Giudei che avessero perseguitato un ebreo convertito al cristianesimo. Anche Valentiniano III e Teodosio II l’8 aprile 426 emanarono una legge con cui proibivano alle famiglie giudee e samaritane di diseredare i loro membri convertiti al cristianesimo. Al tempo dell’imperatore Focas, gli Ebrei o almeno i più fanatici tra loro non perdevano occasione per ripagare autorità e popolazione cristiana con ogni genere di offese, come descrive Giacobbe, un convertito dal giudaismo: «Io odiavo la legge dei cristiani e il ricordo di Cristo, e non volevo udire la profezia di profeti che avevano profetizzato a riguardo di lui; ma restavo a macchinare contro i cristiani in ogni sorta di mali e li oltraggiavo enormemente» (Sargis d’Aberga 63).
 
Tutto questo doveva portare malauguratamente al desiderio di vendetta dei cristiani, al punto che Focas si adoperò per la conversione forzata di tutti gli ebrei dell’impero alla religione di Stato, sebbene già in precedenza papa Gregorio Magno avesse scritto ai vescovi proibendo di battezzare gli ebrei contro la loro volontà e in altro momento ingiungeva al vescovo di Cagliari di far restituire la sinagoga che un neoconvertito dall’ebraismo aveva sottratta ai suoi antichi correligionari. L’intolleranza cristiana si alimentava con la continua rivalsa giudaica. Fermiamoci qui alle soglie del Medioevo.
 
Per fortuna oggi uno spirito nuovo da parte cattolica, ma anche da non pochi gruppi di ebrei, ci porta a considerarli come “fratelli maggiori”, sebbene talvolta tentati da invidia come quello della parabola del figlio prodigo perché il padre compassionevole ne aveva festeggiato il ritorno ammazzando il vitello grasso.

IL TIMONE – Aprile 2010 (pag. 22 -24)