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Perchè abbiamo ancora bisogno del Rosario
NEWS 29 Novembre 2017    

Perchè abbiamo ancora bisogno del Rosario

di card. Angelo Scola

 

Fu una sera di quasi vent'anni fa, poco dopo la mia ordinazione episcopale. Ero tornato a Malgrate sul lago di Lecco, nella vecchia casa di ringhiera dove sono nato, per una delle rare e fugaci visite ai miei genitori, ormai molto anziani. Mia madre era quasi cieca. Ricordo che la trovai seduta in cucina, al buio, che stava recitando il Rosario. Alla mia domanda, brusca di rimprovero: «Abbiamo deciso di risparmiare sulla bolletta della luce?», rispose tranquillamente: «Per leggere questo libro di preghiere, non ho bisogno di vederci».

Da più d'uno, tra pontefici e teologi che se ne sono occupati, il Rosario è stato definito il "breviario del popolo" o "il vangelo degli umili". A testimoniarlo è la stessa storia di questa devozione mariana. Fin dall'Alto medioevo in molti conventi i fratelli laici, dispensati dalla recita del salterio per la scarsa familiarità col latino, integravano le loro pratiche di pietà con la recita dei "Paternostri". I 150 Salmi, così, vennero sostituiti da 150 Padre Nostro, che ben presto divennero 15 decine di Ave Maria, ognuna delle quali introdotta dal Gloria e dal Padre Nostro. In seguito la Madonna stessa, apparendo a san Domenico, gli indicò nella recita del Rosario un'arma efficace per debellare l'eresia albigese.
 
In altri due drammatici momenti della storia la preghiera del Rosario si impose con grande autorevolezza nella vita dei popoli europei. Il 7 ottobre 1571 la flotta cristiana sconfisse a Lepanto quella turca, allontanando così il pericolo di una invasione musulmana nell'Europa cristiana. Poiché in quel giorno a Roma le Confraternite del Rosario celebravano una solenne processione, il Papa san Pio V attribuì la vittoria a Maria, ne fece celebrare la festa e incoraggiò la recita del Rosario, che in breve tempo divenne la preghiera popolare per eccellenza.
 
Un'altra decisiva tappa per la diffusione della preghiera mariana fu il 12 settembre 1683, quando il re polacco Giovanni Sobieski sconfisse a Vienna i Turchi e impedì definitivamente all'lslam la conquista dell'Occidente cristiano.
 
Da allora questa preghiera semplice di affidamento alla Madonna fu autorevolmente indicata dai Pontefici come arma formidabile per impetrare la pace. È Maria stessa che la raccomanda. Per limitarci agli ultimi due secoli basta ricordare Lourdes, dove nel febbraio del 1858 la Vergine appare a anta Bernadette Soubirous con la corona del Rosario in mano invitando con insistenza alla preghiera e alla penitenza. O Fatima, dove nell'aprile del 1917 la Madonna, apparendo a tre pastorelli, rivolge loro un appello urgente e drammatico: «Voglio che veniate qui il giorno 13 del mese prossimo, che continuiate a recitare tutti i giorni il rosario in onore della Madonna del Rosario, per ottenere la pace del mondo e la fine della guerra, perché soltanto lei ve la potrà meritare».
 
Le parole che Gesù, dalla croce, dice all'apostolo Giovanni: «Ecco tua madre» (Gv 19,27) sono dette a ciascuno di noi. Sicuri di questa nuova parentela a cui siamo stati consegnati, noi ci affidiamo a Lei. O, meglio, a Gesù attraverso Maria. Perché Maria è totalmente riferita a Gesù. Tutta la sua consistenza umana e tutta la sua forza amante le derivano da Lui. Come disse un grande innamorato della Vergine, «Maria vive con gli occhi su Cristo e fa tesoro di ogni sua parola» (Giovanni Paolo Il, Lettera Apostolica Rosarium Virginis Mariae, 11).
 
Così, quasi per osmosi, come avviene per ogni figlio con i suoi genitori, noi siamo condotti dalla Madre ad imparare i misteri della vita del Figlio e a conformarci a Lui. Alla scuola di Maria noi ripercorriamo tutte le tappe della vita di Cristo, lentamente e progressivamente lasciando illuminare tutta la nostra esistenza dalla Sua. Emerge così la radicale implicazione antropologica di questa devozione mariana. «Si può dire – scrive ancora Giovanni Paolo Il – che ciascun mistero del Rosario, ben meditato, getta luce sul mistero dell'uomo» (Giovanni Paolo Il, op. cit., 25).
 
Il Rosario è la forma di preghiera che più corrisponde alla "preghiera del cuore" fiorita dalla tradizione dell'Oriente cristiano. «La semplice preghiera del Rosario batte il ritmo della vita umana» (Giovanni Paolo Il, op. cit. 2). E la ripetizione delle Ave Maria non è pura ripetitività ma, come chiarisce benne l'etimo del verbo latino re-petere, esprime il bisogno tipico dell'amore di mendicare continuamente la presenza dell'Amato.
 
Il Rosario è la più semplice forma di preghiera contemplativa, assolutamente al riparo da ogni deriva gnostica perché come ha detto Benedetto XVI, «è scuola di contemplazione e di silenzio. A prima vista, potrebbe sembrare una preghiera che accumula parole, difficilmente quindi conciliabile con il silenzio che viene giustamente raccomandato per la meditazione e la contemplazione. In realtà, questa cadenzata ripetizione dell'Ave Maria non turba il silenzio interiore, anzi, lo richiede e lo alimenta… il silenzio affiora attraverso le parole e le frasi, non come un vuoto, ma come una presenza di senso ultimo che trascende le parole stesse e insieme con esse parla al Cuore» (Benedetto XVI, Pontificio Santuario di Pompei, 19 ottobre 2008).
 
Oltre a restare, ancora oggi, la preghiera per eccellenza per la pace e per la famiglia, due imponenti "emergenze" di questo travagliato inizio del Terzo Millennio, pare a me che si possa trovare un'altra non trascurabile ragione della inesauribile attualità del Rosario.
 
Infatti, una innegabile caratteristica di noi uomini post-moderni è una certa propensione narcisistica, che ci condanna al ripiegamento quasi ossessivo sui nostri desideri/bisogni, spesso ridotti ad emozioni o a reazioni. La recita, così familiare ai nostri padri, del Rosario, in forma personale o comunitaria, può utilmente sostituire la rêverie (fantasticheria), diventando fattore di ordine e di VI compostezza dell'io, in grado di renderlo dominus di se stesso, ultimamente casto. E può dare all'invocazione del Padre Nostro «non lasciarci cadere in tentazione» una connotazione positiva: al posto della dissipazione dell'io, indotta da questa società dell'immagine, il suo sobrio e costruttivo consolidamento.


IL TIMONE – Settembre/Ottobre 2009 (pag. 14-15)