di don Antonio LIVI
Il «senso comune» è l’insieme delle certezze metafisiche, religiose e morali, spontaneamente intuite da tutti gli uomini, che consentono di respingere lo scetticismo e di difendere l’intrinseca razionalità della fede cristiana
Nel linguaggio ordinario dei nostri giorni in Italia, per «senso comune» si intende ciò che comunemente pensa la maggior parte della gente su questioni etiche; deriva da questa accezione sociologica del termine il fatto che si parli, a proposito delle leggi sul «buon costume», di «comune senso del pudore». Questa accezione sociologica del termine «senso comune» implica che non tutti abbiano la stessa sensibilità morale e gli stessi criteri, ragione per cui si dà sempre una maggioranza che la pensa in un certo modo e una minoranza che avanza proposte diverse; inoltre, questa accezione sociologica implica anche la possibilità che il senso comune cambi per via di inevitabili mutamenti storici e geografici (Gramsci, per es., diceva nei suoi Quaderni del carcere che la rivoluzione culturale promossa dal Partito comunista doveva «cambiare il senso comune del popolo italiano», ancora di tipo agrario e cattolico). Se si rimane a questo livello, tutti i problemi morali e politici vengono affrontati con il pregiudizio del relativismo, ossia negando che nelle questioni fondamentali ci sia una verità riconoscibile da tutti e sempre. Ma proprio in Italia il termine «senso comune» era stato introdotto nel ’700 da Vico con ben altro significato: egli voleva parlare del consenso spontaneo e universale di tutti gli uomini sui principi metafisici della realtà (soprattutto la dipendenza del mondo da Dio creatore e provvidente e la legge morale naturale), contrapponendo questo consenso «popolare» alla «boria dei dotti», ossia al razionalismo cartesiano, che privilegiava le idee chiare e distinte e la deduzione matematica, e con queste premesse alimentava lo scetticismo in campo metafisico e morale. Nella stessa epoca, in Scozia, un altro filosofo anticartesiano, T. Reid, combatteva lo scetticismo del conterraneo Hume con la sua dottrina del «common sense», che ha molte analogie con il concetto di «senso comune» proposto da Vico. Nell ‘800 la nozione di un insieme di certezze metafisiche, religiose e morali che precedono e fondano la verità di ogni filosofia e ogni scienza è stata accolta da pensatori inglesi (J. H. Newman), americani (C. S. Peirce) e spagnoli (J. Balmes; nel primo ‘900 questa nozione entrò a far parte della dottrina dei filosofi cattolici di ispirazione tomista (R. Garrigou-Lagrange, J. Maritain, E. Gilson) e di quelli di scuola ermeneutica (L. Pareyson), e anche di alcune figure importanti del pensiero ebraico (H. Arendt). E arriviamo così ai nostri giorni, quando molti pensatori, sia europei che americani, difendono l’esistenza e il valore del senso comune contro lo scetticismo dilagante, che vorrebbe eliminare dalla coscienza di tutti gli uomini la certezza che il mondo è creato da Dio e che la vita va vissuta secondo l’ordine morale stabilito da Dio. Oggi dunque è operante una vera e propria «filosofia del senso comune»; essa si basa su di una rigorosa analisi critica (a carattere essenzialmente logico e fenomenologico) della conoscenza nei suoi principi primi: punto di partenza, criteri di verità, leggi logiche fondamentali. La nozione filosofica (non sociologica) di «senso comune» è così sintetizzabile: «insieme organico e genetico delle evidenze empiriche primarie, dalle quali derivano i primi principi universali (speculativi e morali) e tutte le successive certezze dell’esperienza, dell’inferenza e della testimonianza». L’interesse di questa nozione è rilevante, sia per la metafisica (perché esclude ogni ipotesi soggettivistica o idealistica) che per la morale (perché giustifica la necessità di rifarsi alla «legge naturale» come fondamento di ogni legge positiva). Ma è rilevante soprattutto per la fede nella rivelazione cristiana, perché ne giustifica l’intrinseca razionalità e serve pertanto a superare le ricorrenti ricadute della cultura cattolica in quel fideismo che già il Concilio Vaticano I aveva condannato nel 1870. Infatti, l’atto di fede cristiana si presenta (nel Vangelo e nei documenti del Magistero) come un atto della ragione che riconosce la «credibilità» della Rivelazione divina; ciò comporta dei criteri assoluti (non relativi ai tempi e ai luoghi) per il riconoscimento dei segni di credibilità della Rivelazione, e anche dei criteri assoluti per comprendere i contenuti razionali dei misteri rivelati. Se non si tiene conto di questi criteri – che fanno capo al senso comune – l’atto di fede diventa irrazionale, ed è impossibile sapere addirittura se ciò che viene proposto dalla rivelazione divina è qualcosa di determinato. Se la Parola di Dio non si rivolge all’uomo con il linguaggio del senso comune, essa non è più un messaggio universale di salvezza, ma è un messaggio per alcuni privilegiati (così sostiene l’eresia dello gnosticismo), oppure non è affatto un messaggio, perché nessuno lo comprende o ciascuno lo interpreta a modo suo (il pensatore luterano K. Jaspers ha scritto: «Nella Scrittura si può trovare tutto e il contrario di tutto»). Sulla base di questa chiarezza concettuale e del collegamento tra senso comune e fede, è possibile inoltre combattere la tendenza attuale all’indifferentismo (eresia di coloro che ritengono che sia indifferente aderire a una religione
o a un’altra, perché tutte si equivalgono), che talvolta si presenta come sincretismo, ossia come tentativo di «mettere assieme» – nella dottrina, nella prassi morale e nel culto – la verità cristiana con le dottrine (spesso erronee e aberranti) dell’islam, del buddismo e dell’induismo. Il sincretismo religioso presuppone una cosa vera, e cioè che esiste un’esperienza religiosa universale, basata sul senso comune, dalla quale derivano le diverse religioni “naturali”; ma non vuole riconoscere una cosa altrettanto vera, ossia il fatto storico della rivelazione soprannaturale (iniziata dai Profeti e perfezionata da Cristo Gesù), sulla quale si fonda una religione soprannaturale che si presenta come la vera religione e l’unica religione vera. Il sincretismo è (scusabile) mancanza di conoscenza storica da parte dei non cristia¬ni, ma è (inescusabile) mancanza di fede nella Rivelazione da parte dei cristiani. La filosofia del senso comune serve, tra l’altro, a far riflettere i cristiani sulle pretese di verità umana delle altre religioni (pretese infondate) con le garanzie di verità divina offerte dal messaggio evangelico, una verità testimoniata da Dio stesso fatto uomo e da coloro che Egli scelse come testimoni della sua resurrezione, dopo aver indicato proprio la sua resurrezione come «segno» supremo o prova razionale della sua divinità, e pertanto della sua credibilità.
IL TIMONE – Giugno 2004 (pag. 28 – 29)